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Gaza: perché marciare in silenzio?

È la domanda che si sono posti in molti leggendo l’appello di un piccolo gruppo apartitico e aconfessionale di cittadine e cittadini che, come tanti altri, non sopportano più di assistere passivamente al terrificante e quotidiano spettacolo della massiccia, brutale e disumana violenza sulla popolazione civile palestinese. Per questo invitano a una manifestazione pacifica e silenziosa il 24 maggio alle 14 a Bellinzona. Un’iniziativa che nasce dal basso, senza l’appoggio di partiti o gruppi politici, per lanciare un appello al Consiglio federale a nome della società civile: affinché adotti subito misure visibili e concrete per cercare di fermare i gravissimi crimini contro l’umanità che Israele sta compiendo a Gaza e in Cisgiordania.

Ma perché marciare in silenzio?

Perché non gridare tutta l’indignazione per l’indifferenza – inevitabilmente complice – delle autorità europee e in particolare della nostra democratica Svizzera, custode delle Convenzioni di Ginevra, davanti alle sempre più gravi violazioni del diritto umanitario internazionale? Ciò a cui assistiamo ogni giorno è umanamente ed eticamente inaccettabile. Verrebbe da urlare. Invece, marciare in silenzio significa proprio “disarmare le parole per disarmare la guerra”, come ricordava Papa Francesco e ora anche il suo successore.

In questo momento storico, gridare “Palestina libera dal Giordano al mare” o rivendicare, come fa la destra israeliana al potere, “la grande Israele dal Giordano al mare”, significa da entrambe le parti perpetuare la guerra e i massacri per raggiungere l’obiettivo. Una tragedia che affonda le radici nel “colonialismo insediativo” praticato dal sionismo prima ancora del 1948 e che sfocia inevitabilmente nella “pulizia etnica”, come spiega lo storico israeliano Ilan Pappé. Tragedia che oggi può essere fermata solo con una pace equa e duratura, fondata sul rispetto delle leggi e delle risoluzioni internazionali.

Manifestare in silenzio significa dunque protestare contro i gravi crimini subiti dal popolo palestinese (senza però ignorare quelli inflitti ai civili israeliani il 7 ottobre e il dramma degli ostaggi). Ma significa anche esprimere solidarietà con i tanti ebrei che, dentro e fuori Israele, si oppongono alla storica persecuzione del popolo palestinese. Quegli stessi ebrei che, dopo la Shoah, si erano ripromessi che “mai più” potesse accadere nel mondo ciò che allora l’uomo ha fatto all’uomo. Perché sanno che il trauma subito non giustifica lo sterminio o la deportazione di un altro popolo, anch’esso ormai traumatizzato a vita.

Non è difficile capire che il pacifismo attivo e il disarmo siano l’unica forma di realismo politico capace di prevenire e fermare le guerre. Ma è difficile sedersi a un tavolo e discutere dei compromessi necessari per la pace, perché significa riconoscere che i nemici sono esseri umani (e non animali). E questo passo richiede molto più coraggio di quello che serve a premere il pulsante che serve a sganciare bombe su scuole e ospedali, a guidare i droni che uccidono donne e bambini, a privare un popolo di acqua, cibo e medicine.