Questo giornale ha pubblicato recentemente diversi interessanti contributi sulla situazione delle finanze pubbliche del Cantone Ticino, che hanno rilanciato il dibattito su questo tema politico, oltre che economico. Sul piano macroeconomico, ossia considerando l’insieme dell’economia, lo Stato è indispensabile per il corretto funzionamento di questo insieme di soggetti economici. La cosiddetta “evidenza empirica” lo ha dimostrato chiaramente durante gli anni della pandemia da Covid-19, quando il sostegno finanziario da parte dello Stato ha permesso a numerose piccole e medie imprese di evitare il fallimento, dunque anche il licenziamento di molte persone. Come il famigerato “buon padre di famiglia” – spesso evocato da chi vuole “meno Stato e più mercato” – bisogna fare in modo di avere il denaro necessario per consentire un tenore di vita dignitoso alla propria famiglia – che nel caso dello Stato è formata dall’insieme dei residenti (anche di chi non paga alcuna imposta perché ha un reddito disponibile inferiore al minimo imponibile). In soldoni, lo Stato (ossia l’insieme dei politici al governo e in parlamento) deve impegnarsi per ottenere le risorse fiscali necessarie per finanziare la spesa pubblica corrente – cioè quella che non riguarda gli investimenti, siano essi materiali (come la costruzione di un ospedale) o immateriali (come la formazione scolastica), che vanno finanziati a debito per rispettare la regola d’oro della finanza pubblica (“pay as you use”). Per riuscire a farlo, lo Stato deve calibrare le aliquote d’imposta per le persone fisiche e le persone giuridiche, evitando sgravi fiscali che rendono ancora più difficile questo esercizio di portata sistemica. Non si tratta, in realtà, di un esercizio puramente contabile, come lo è diventato ormai sul piano politico, ma di una valutazione di ordine macroeconomico allo scopo di assicurare la soddisfazione dei bisogni dell’insieme dei portatori d’interesse nel sistema economico.
I dati statistici forniti dalla Conferenza dei direttori cantonali delle finanze e dalla Confederazione indicano che negli ultimi 20 anni (2003-2023) l’aumento della spesa pubblica del Cantone Ticino (+58%) è stato inferiore alla media degli altri cantoni svizzeri (+62%), 15 dei quali hanno avuto un aumento maggiore a quello del Ticino – come ha ben fatto notare Marco Noi (laRegione, 16 maggio). Si tratta di un confronto pertinente, anche per mostrare che la spesa pubblica in Ticino non è né esagerata né “fuori controllo”, come affermano i fautori di “meno Stato e più mercato”. Un altro dato interessante a questo riguardo concerne l’importo del debito pubblico, che viene calcolato ufficialmente con una formula scorretta dal punto di vista macroeconomico, visto che non tiene affatto in considerazione il valore dei beni amministrativi posseduti dallo Stato. Questa formula di calcolo sottrae infatti solo il valore dei beni patrimoniali dello Stato dall’importo del proprio debito lordo, ignorando perciò i terreni pubblici, le strade cantonali e gli stabili di cui lo Stato è proprietario e nei quali ci sono gli uffici della pubblica amministrazione. In questo modo, il debito pubblico ticinese ammonta oggi a 2,6 miliardi di franchi – ossia oltre 7'000 franchi pro-capite – mentre considerando anche il valore di tutti i beni amministrativi dello Stato il debito pubblico del Cantone Ticino sarebbe attualmente di circa 95 milioni di franchi – vale a dire solo 265 franchi per abitante.
È dunque necessario valutare anzitutto correttamente il debito pubblico sul piano contabile al fine di procedere con una gestione oculata delle finanze pubbliche, che contribuisca al benessere della popolazione mediante una politica fiscale che incentivi i comportamenti favorevoli all’interesse generale, disincentivando parallelamente i comportamenti dannosi per il bene comune – tra cui i problemi ambientali sono diventati sempre più urgenti da affrontare e risolvere collettivamente. A titolo d’esempio, invece di concedere degli sgravi fiscali all’insieme delle imprese, bisognerebbe concederli solo alle imprese che versano salari dignitosi, che assumono dei lavoratori residenti e che non inquinano l’ambiente. Le imprese che invece sfruttano la loro rendita di posizione e che esercitano una pressione al ribasso sugli stipendi, approfittando dell’esistenza di una forza lavoro transfrontaliera disposta a fare enormi sacrifici pur di guadagnare uno stipendio maggiore che nel suo Paese di residenza, dovrebbero essere gravate da aliquote d’imposta maggiori (usando perciò il bastone e la carota, senza “fare di tutta l’erba un fascio”). Altrimenti, il contenimento del debito pubblico porterà in misura crescente all’indebitamento privato, con il rischio che a lungo termine scoppi una crisi finanziaria simile a quella dei mutui “subprime” negli Stati Uniti. Non sarebbero in tal caso soltanto i debitori a doverne pagare le conseguenze, ma pure i loro creditori, con varie ripercussioni negative di portata sistemica per l’insieme dell’economia cantonale.