Dato che il mio nome è di ascendenza ebraica mi voglio dissociare pubblicamente dall’uso rivoltante e improprio della parola antisemita per insultare e squalificare le persone colte e coraggiosamente impegnate a offrire al mondo un’informazione etica sulla spaventosa mattanza della popolazione di Gaza perpetrata dal governo di Netanyahu.
In questo clima è palese una pressione a non criticare Israele, pena l’accusa di “tradimento”, “antisemitismo interno” o “delegittimazione dello Stato ebraico”: infatti viene spesso richiesto che, nei momenti di crisi, gli ebrei dimostrino una solidarietà incondizionata verso Israele, senza spazio per le critiche pubbliche. Di fatto le organizzazioni ebraiche ufficiali – come l’Asi – scoraggiano prese di posizione critiche, soprattutto se pubbliche. Le persone che criticano Israele subiscono spesso attacchi personali, isolamento, censura o perdita di incarichi professionali come quello di cui è vittima oggi il giornalista Roberto Antonini. Nonostante l’ingiunzione al silenzio, esistono spazi in cui la critica etica trova voce, anche se con costi sociali e politici elevati. La sfida consiste nel costruire un discorso che separi l’identità ebraica dal sostegno automatico a un governo criminale.
Molti ebrei si sono pubblicamente opposti alla guerra a Gaza e alla condotta di Netanyahu malgrado l’uso strumentale dell’accusa di antisemitismo per mettere a tacere le critiche al suo governo. Infatti l’equiparazione tra Israele e il popolo ebraico viene usata per silenziare il dissenso, le accuse di “self-hating Jew” sono diventate un’arma retorica frequente. Questo clima alimenta una polarizzazione interna nelle comunità ebraiche e una crisi di coscienza per chi vuole conciliare etica e identità. Per esempio Ehud Barak, Ehud Olmert, Noam Chomsky, Tom Seguev, Ilan Pappe, Shlomo Sand, David Grossman, Amos Gitai, Yuval Noah Harari, Delphine Horvilleur, Anna Foa, i giornalisti del quotidiano Haaretz e tanti altri sfidano la narrazione dominante anche se possono essere accusati di offrire pretesti all’antisemitismo e persino di essere “dei cattivi ebrei”.
La frattura morale e politica interna alla comunità ebraica è molto ardua da affrontare ma illustra anche il coraggio di chi, nonostante le pressioni, rifiuta di tacere la propria indignazione: è possibile essere “un buon ebreo” e criticare il governo di Israele? È possibile essere fedele alla memoria della Shoah e rifiutare i crimini commessi in nome dell’ebraismo? È possibile rifiutare la manomissione della propria appartenenza ebraica operata dal governo israeliano clamando “Not in our name”?
Mi auguro che queste mie righe siano sufficientemente chiare per permettere a chiunque di rinunciare alle infondate accuse di antisemitismo rivolte alle persone che difendono i diritti umani.
(Queste righe riassumono la Lettera Aperta al presidente dell’Associazione Svizzera-Israele, pubblicata il 27.5.2025 da Naufraghi.ch)