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Ogni gesto disperato nasce da un abisso

(Ti-Press)

La notizia del padre luganese ucciso a Luino da suo figlio ci ha trapassato il cuore. Non conoscevamo questa famiglia e non vogliamo colmare con interpretazioni il mistero delle loro vite. Eppure qualcosa ci tocca in profondità. È qualcosa che ha a che fare con il legame tra genitori e figli, con la vocazione di accogliere un altro nella propria vita e dire con i gesti che la sua esistenza ha un valore infinito. L’uomo ucciso era un padre. Non solo per via legale, ma nella carne: si era fatto padre di un figlio non generato, aveva scelto di esserci per lui anche quando la vita di quel ragazzo era già segnata dalla ferita. Aveva detto sì a una presenza complessa, difficile, dolorante. Aveva detto sì al rischio dell’amore.

Chi vive l’esperienza dell’accoglienza – e noi come Famiglie per l’Accoglienza la viviamo ogni giorno – sa bene che non è una scelta romantica o ideale. È una strada impervia, sempre carica di domande. Nessuno accoglie un figlio perché ha già tutte le risposte. Lo si fa perché si è stati accolti, perché si è fatta esperienza – anche fragile, spesso sorprendente – di un bene ricevuto.

A volte un figlio rifiuta, scappa, la rabbia supera le parole, l’amore sembra non bastare. E ci sono ferite che, semplicemente, restano aperte, restano come una fame mai saziata. Sono quelle dell’origine, della perdita, dell’abbandono. E allora l’amore, anche quello più generoso, può essere rifiutato. Anche fino all’estremo. Per questo – e lo diciamo con tremore – sentiamo pietà per la rabbia di questo ragazzo. La pietà vera, non quella che assolve, ma quella che guarda oltre. Ha fatto qualcosa di terribile. Nello stesso tempo quel gesto, a leggerlo da lontano, sembra gridare un dolore più grande di lui, una domanda disperata. Per questo ci viene da abbracciare anche questo ragazzo. Non per giustificare. Non per negare la giustizia. Ma perché ogni gesto disperato nasce da un abisso, e nessuno ha il diritto di dire che in quell’abisso è perduto per sempre. Ogni figlio, anche quello che ha fatto il male più grande, resta un figlio. Resta uno che chiede, anche dal carcere, uno sguardo che non si ritiri.

Il Vangelo dice: "Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici". Il padre ha dato la vita per suo figlio. La sua vita non è stata vana. È stata data. Ha avuto un senso profondo, come ogni vita che si offre per un altro. E nella sua morte, quest’uomo ha lasciato una testimonianza: che anche nel rifiuto più radicale, il dono di sé resta sacro. La mamma, i fratelli, i loro amici stanno vivendo ora un dolore immenso. Come si fa a restare in piedi davanti a una simile tragedia? Non abbiamo una risposta. Ma crediamo che proprio nella compagnia che nasce dalla fede, nel sostegno reciproco, possa accendersi una speranza. Noi stessi, nel cammino dell’accoglienza, abbiamo imparato che non si può camminare da soli. Ci vuole qualcuno che dica: “Non sei solo, non lo sei mai stato”.

A volte, l’accoglienza stessa diventa croce. Noi sappiamo che ogni croce, nella storia cristiana, è promessa di risurrezione. Questo dolore – così grande, così sproporzionato – non sarà inutile. Sarà accolto. Porterà frutto. Forse non ora. Forse non visibile. Ma qualcosa è già stato seminato. Il padre ha dato tutto. E quando qualcuno dà tutto, nulla va perduto. Per questo ci inginocchiamo davanti a questa famiglia, davanti a questa storia. E preghiamo – anche noi, piccoli e fragili – che il dolore si trasformi in misericordia. Che il carcere diventi occasione di verità. E che la paternità continui a generare vita. Anche oltre la morte.

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