Nel marasma generalizzato di annunci e smentite, che caratterizza l’attuale situazione politica (ed economica) internazionale, è sempre più difficile capire cosa valga e cosa no, chi dice cosa e chi no. In un tale caotico (e sconfortante) contesto informativo, una notizia certa, seppur marginale, ce l’abbiamo: anche Piero Marchesi e Marco Chiesa possono sbagliare. Lo dicono testualmente a questo giornale (il 6 agosto) in risposta all’editoriale di Daniel Ritzer pubblicato due giorni prima, in cui il direttore de ‘la Regione’ parlava di “doppio standard sovranista” per dire che secondo i leader Udc (anche a livello nazionale) è sempre “meglio un brutto accordo che nessun accordo (con gli Usa); meglio nessun accordo che un brutto accordo (con l’Ue)”. Questo, naturalmente, anche di fronte alla recente decisione di Trump di infliggere alla Svizzera un dazio del 39% che ha tutto il sapore del “punitivo” (specie rispetto al 15% affibbiato all’Ue).
Ma sulla portata della sanzione si esprimeranno in questi e nei prossimi giorni gli esperti del campo: economisti, imprenditori, rappresentanti politici. Intanto annotiamoci che, a proposito del reiterato sostegno alla politica di Trump, per Marchesi e Chiesa “quelle aspettative sono state in gran parte disattese. E lo ammettiamo pubblicamente, senza fraintendimenti”. E diciamolo: si sono sbagliati. Tutto quell’entusiasmo per il tycoon pare svanito. E non finisce qui, i due rincarano pure la dose: “Le modalità narcisiste e arroganti con cui Trump ha preso alcune decisioni – da ultimo i dazi contro la Svizzera – hanno sorpreso e scontentato anche chi, come noi, si aspettava un’apertura verso il nostro Paese”. Già, c’era grande fiducia, perché proprio in nome della nostra autonomia, indipendenza geopolitica ed economica dall’Ue ci si aspettava un trattamento di favore. Ma naturalmente, aggiungono Chiesa e Marchesi, questa loro netta e inequivocabile dichiarazione fa “la differenza tra chi si assume delle responsabilità politiche e chi si limita al ruolo – certamente più agioso – di editorialista del giorno dopo”. Ah, ecco, non poteva mancare la polemica contro chi, informando, prova giornalisticamente a proporre delle riflessioni, a sollevare dubbi. E allora, detto della notizia, viene una voglia irrefrenabile di passare al commento, di continuare a porre domande, alimentare il dibattito, com’è nei compiti e nelle responsabilità di una stampa che voglia dirsi indipendente e, si spera, qualificata.
Ecco dunque che verrebbe da chiedere ai due indignati leader Udc come mai tanto senso di responsabilità, nel dire le cose come stanno su Trump, arrivi solo al momento in cui viene toccata la Svizzera: tutto quel che ha fatto e detto finora, nei suoi mesi di presidenza, andava bene? Vogliamo ricordarci dello Studio ovale trasformato in rodeo da circo mediatico per ridicolizzare ospiti come Zelensky o il presidente sudafricano? Vogliamo ricordarci che, senza alcuna vergogna (e senza alcuna protesta), The Donald ha potuto vantarsi del fatto che con l’applicazione dei dazi tutti i Paesi colpiti dovranno baciargli il lato B? Ma andando più a ritroso, ai mesi di campagna, in cui la nostra destra cantonale e nazionale sciorinava elogi e sostegno, vogliamo magari ricordare come fosse ben chiaro a tutti che tra una volgarità e l’altra Trump è da anni quello che parla esattamente la stessa lingua dei nostri paladini del sovranismo (o forse, meglio, loro parlano come lui): sbatti i mostri (immigrati messicani, per dire) fuori dal Paese, richiama sprechi e rigore statale, imponi tasse agli altri per sgravare i tuoi amici in una logica di “comitato d’affari” ben visibile da subito. Il fatto è che “parlare la stessa lingua”, fra sovranisti, non vuol dire andare nella stessa direzione, ma condividere il principio del “mi faccio i miei affari”, a tutti i costi e in barba a ogni regola di attenzione e considerazione verso tutto ciò che possa ostacolare l’ostentato “turboliberismo” che tanto piace oltreoceano come nelle nostre sperdute valli.
Alla base c’è un paradosso, una colossale contraddizione, perché tale forma di sovranismo si applica in un contesto economico “globalista”: insomma, ciascuno pensa a sé, ma ovunque nel mondo. Un linguaggio comune che porta fatalmente alla “resa dei conti”, allo scontro, perché fondato sulla legge del più forte, sul puro potere (economico) che per definizione deve espandersi, che oggi gli Usa di Trump vogliono riaffermare e potenziare, contro tutto e tutti, e che i sovranisti di casa nostra non hanno capito che avrebbe presto toccato anche i nostri “interessi nazionali”. Il sovranismo trumpiano è né più né meno una forma, implacabile, di “colonialismo”, di “imperialismo” o, se vogliamo, di “capitalismo neofeudale” (per dirla con quanto ha scritto il sempre acuto Silvano Toppi su ‘Naufraghi.ch’); Trump è una sorta di moderno Gessler davanti al quale pure la Svizzera è destinata a togliersi il cappello e ad assoggettarsi, specie se non sa far altro che correre a promettergli chissà cosa dopo che lui, con disprezzo, ha appena detto di aver parlato di Svizzera con una signora pedante di cui non sa neanche il nome. E poi, allora, che si fa? Si teme il peggio, ci si rifugia nei propri interessi personali e per correre ai ripari c’è chi subito abbassa le tapparelle e invoca il sostegno statale alle imprese private con le inevitabili richieste di sgravi fiscali. Verrebbe ora da chiedersi cosa contrapponga qui e adesso, di fronte a queste nefaste prospettive, la sinistra europea, nazionale, cantonale. Aspettiamo che si manifesti.