I democentristi sono così lontani dai settori produttivi che continuano a cavalcare la loro retorica, mentre il tycoon punisce la Svizzera con i dazi
Meglio un brutto accordo che nessun accordo (con gli Usa); meglio nessun accordo che un brutto accordo (con l’Ue): ecco il doppio standard sovranista nel suo massimo splendore. Il pacchetto denominato ‘Bilaterali III’ con l’Unione europea “è un accordo di sottomissione unilaterale” (Piero Marchesi, consigliere nazionale e presidente Udc Ticino, laRegione 15 luglio 2025), che andrebbe respinto perché “chi sostiene questo trattato mostra di non aver capito la lezione della nostra storia: la forza della Svizzera sta nella sua libertà”. Che poi il costo della resa europea ai piedi di Donald Trump equivalga a dazi americani del 15% sull’export Ue, mentre l’indipendenza elvetica porti a un’imposizione doganale Usa del 39% pare essere un dato non troppo significativo per il primo partito svizzero. La reazione dell’Udc (riflesso pavloviano?) di fronte all’assurda decisione unilaterale di Trump è stata quella di chiedere al Consiglio federale “di ridurre in modo massiccio l’onere per l'economia”, con tagli alle imposte e ai regolamenti. Una rivendicazione prettamente ideologica, per nulla in grado di contrastare le devastanti conseguenze per l’industria elvetica di esportazione e per l’occupazione, derivate dalla guerra commerciale scatenata dal tycoon. “L’industria, quale industria? I lavoratori, chi?”, potrebbero chiedersi i democentristi, a dimostrazione di quanto il fu Partito agrario sappia bene quali sono gli interessi che difende: quelli della rendita immobiliare e della speculazione finanziaria. Punto. Ecco perché può permettersi, d’altronde, di cavalcare perennemente la retorica anti-immigrazione: i futuri equilibri dei settori produttivi legati all’evoluzione del mercato del lavoro (inverno demografico, carenza di manodopera) non sono una sua preoccupazione.
È talmente lontana l’Udc da qualsivoglia ragionamento di politica industriale che all’indomani dell’elezione di Trump c’era chi (Marchesi su laRegione del 13 novembre 2024, ma non solo) aveva osato definire il ritorno al potere del tycoon “un’occasione per la Svizzera”, incluso “il suo approccio sul fronte commerciale”. Certo, si può sempre provare a interpellare la pancia dell’elettore medio con frasi altisonanti (“La Svizzera può restare libera solo se continua a decidere da sola… Nessuno difenderà i nostri interessi meglio di noi stessi”, il ‘senatore’ e già presidente nazionale Udc Marco Chiesa sul Cdt del 30 luglio 2025), ma prima o poi la realtà presenta il conto. In questo caso dazi per l’export elvetico quasi tre volte superiori a quelli imposti al principale partner commerciale della Confederazione, circa un punto percentuale di Pil a rischio, e lo scenario altamente probabile – a meno di un accordo last minute entro il 7 agosto (Guy Parmelin: stiamo preparando un’offerta per gli Usa) – di una recessione.
È pur vero che, in parallelo, la prova di forza del guru dei sovranisti di casa nostra ha avuto un altro effetto: quello di far perdere al franco svizzero un paio di centesimi rispetto al dollaro. Magra consolazione, che non basta (neanche un po’) a compensare la mazzata tariffaria; né tantomeno a ‘risanare’ il bilancio della Banca nazionale (qui si parla di puro maquillage finanziario: alla Bns la svalutazione del dollaro americano è ‘costata’ 15 miliardi di franchi nel primo semestre). Sulle merci svizzere di esportazione verso gli Stati Uniti e sul risultato – cosmetico – dell’Istituto di emissione continuerà a pesare un altro doppio standard, valutario e commerciale, impostoci dall’amico Donald Trump.