Nel primo articolo di un ciclo inaugurato ad agosto e intitolato ‘Survivors’, il Tages-Anzeiger presenta la storia della lucernese Nicole Dill, vittima di un brutale tentativo di femminicidio. Ciò che Nicole ha subìto da parte del suo ex partner – è stata rapita, ha subìto un tentativo di soffocamento con i gas di scarico dell’auto, è stata violentata, colpita tre volte al torace con una balestra e infine legata mani e piedi e trasportata per ore di notte nel bagagliaio – è agghiacciante ma, forse, paradossalmente meno orribile di quanto ha scoperto dopo, e cioè che l’uomo, definito instabile da una perizia, era già stato condannato per stupro e omicidio e che, ciliegina sulla torta, le autorità cantonali e anche il medico di famiglia lo sapevano. Nessuno l’ha però informata della minaccia.
Il sistema legale svizzero pone infatti il diritto alla privacy di un criminale già noto per la sua pericolosità al di sopra del diritto alla vita e all’integrità fisica e mentale di potenziali vittime. Per ottenere giustizia, Nicole, che oggi ha 56 anni, ha citato in giudizio il Canton Lucerna, ma per quasi 18 anni la sua denuncia è stata più volte respinta, finché la Corte europea dei diritti dell’uomo non le ha recentemente dato ragione rivelando una falla nel sistema legale svizzero.
Di simili falle sistemiche si discute anche nella collezione di saggi intitolata ‘Le parole sono uno sciame d’api - La violenza contro le donne: una questione culturale’ a cura di Loredana Lipperini, libro consigliato di recente all’Elba Book Festival. Come Giuliana Paganelli, una delle autrici, spiega, la violenza di genere non riguarda infatti mai il singolo, ma affonda le radici nella cultura, nella storia, nell’arte, nella società stessa. Nel caso di Nicole Dill i burocrati, facendo appello alla protezione dei dati, si sono lavati le mani dalle proprie responsabilità, trattando l’aggressore come un’eccezione piuttosto che come il prodotto di un sistema che non tutela adeguatamente le donne. Paganelli cita in questo caso Hannah Arendt che, in ‘La banalità del male’, osserva come la trasmissione di atrocità non avvenga tramite “mostri”, ma piuttosto tramite individui “che agiscono senza pensare” rendendo così “normali” o “accettabili” comportamenti devianti. Come sostiene Vera Gheno, un’altra delle autrici, esiste ancora nella nostra società “l’incapacità di molti soggetti di comprendere la sistemicità della violenza di genere”, dove ogni episodio è visto singolarmente senza cogliere il sostrato socioculturale che li connette. In questo modo le istituzioni finiscono per perpetuare, anche inconsapevolmente, le dinamiche di potere patriarcali. L’uomo che ha brutalizzato Nicole Dill non va perciò catalogato come “mostro” poiché così facendo si allontana l’individuo dalla normalità e si “solleva la società dalle proprie responsabilità collettive”.
Se, come indica il sondaggio Jugendtrendstudie Schweiz 2025, le giovani donne della Generazione Z provano una “profonda e diffusa paura” degli uomini, tocca alla società rassicurarle e proteggerle. C’è tanto lavoro da fare.