Parliamo di RadioTv.
Ai termini della concessione Ssr (versione 2018; in vigore fino alla fine del 2028), la Ssr si compone di quattro società regionali. La cosa interessante è che, mentre il testo riferisce due unità aziendali a un target territoriale (cioè la Svizzera tedesca e retoromancia, la Svizzera romanda), per le altre due il target è espressamente linguistico (il romancio, e l’italiano).
La Rsi non è quindi, a ben vedere, la RadioTv della Svizzera italiana (e ancor meno del solo Ticino, come sembra invece guardando la programmazione e i continui orgogliosi riferimenti in antenna al “nostro Cantone”), ma dell’intera Svizzera di lingua italiana, cioè dell’insieme degli italofoni della Svizzera, ovunque residenti in Elvezia. Quindi il suo pubblico di riferimento è (almeno: dovrebbe essere) di circa 750mila persone, non di 370mila.
Questa differenziazione ha anche giustificato l’applicazione della mitologica “chiave di riparto”, che assegna alla Rsi fondi superiori al numero di abitanti della Svizzera italiana, ma probabilmente in linea con il numero degli italofoni in Svizzera.
Ovviamente nessuno se n’è dato conto, la Rsi considerandosi da sempre – io direi a torto – la televisione dei ticinesi (e un po’, ma molto poco, dei grigioni italiani). Insomma un media cantonale, una specie di TeleTicino di lusso (qui esagero un po’, ma mi piace dirlo), avvitato sulle vicende di questo povero Ticino e comunque del tutto estraneo e indifferente a quanto accade nel resto della comunità italofona.
Non parliamo (non oggi, almeno) delle storture che questo ha provocato nella società e nella politica ticinesi, affetti da un immotivato e pazzesco ‘nombrilisme’ e da conseguenti assurde illusioni ottiche (non so, il valore della nostra cultura materiale, le “eccellenze” enogastronomiche del territorio, la qualità del dibattito politico, le bellezze naturali, i nostri “eroi”cantonali ecc.). Parliamo invece del voto imminente sulla riduzione del canone a duecento franchi. Ma non per valutare se l’offerta attuale della Rsi valga i soldi attuali, o ne valga duecento, o meno, anche se certa programmazione potrebbe alimentare qualche dubbio.
Probabilmente i nostri confederati d’Oltralpe salveranno anche la Rsi, come in generale ci salvano spesso da noi stessi, bocciando la proposta. Vi è però da attendersi, per il “fuoco amico” trasversale di cui è sempre vittima la Rsi, che la proposta invece passi in Ticino. A quel momento avranno vita facile coloro che, in questi periodi di vacche comunque magre, dal Nord delle Alpi metteranno in discussione la chiave di riparto per il fatto che, appunto, gli svizzero-italiani hanno votato come hanno votato, e quindi non sono che moderatamente interessati alla “loro” Rsi; e quest’ultima, per il proprio conclamato iperregionalismo, non avrà nemmeno l’espediente salvifico di difendersi appellandosi a quanto (non) fa per la tutela dell’italofonia in Svizzera.
Tutto questo per dire che, quale elementare misura di prudenza oltre che di rispetto per una mission da sempre un po’ disattesa, avremmo gradito vedere che dalla “rivoluzione” comanesca – illustrata qualche giorno fa – uscisse anche qualche attenzione (furbesca e pelosa quanto si vuole, ma i tempi sono grami e bisogna arrangiarsi come si può…) concreta al popolo “utile”, quello di coloro che parlano italiano anche al Nord delle Alpi.