‘I care’. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”. (Don Milani)
Giovedì 2 ottobre se ne è andato Giorgio Raschetti, marito, padre, insegnante. Il suo sorriso ha smesso di incontrare i volti di chi incrociava: a scuola e per le vie di una città che perlustrava palmo a palmo con il suo cane al guinzaglio, anche se più volte, vedendolo, mi trovavo a pensare che tra quei due non c’era rapporto di forza, camminavano fianco a fianco come se uno guidasse discretamente, senza che l’altro se ne accorgesse, in una danza orizzontale che confondeva le carte e disegnava un’equità bella e strana. Giorgio si è fermato dopo una settimana di lotta che, mi piace pensare, lo ha visto combattere con la voglia di vivere da una parte e con la consapevolezza di aver lasciato un’impronta sottile e indelebile in chi lo ha conosciuto e frequentato.
Vorrei provare a ricordarlo, rievocando due episodi che ho potuto vivere insieme a lui. Il primo risale a giovedì scorso, poche ore prima che il suo cuore lo costringesse all’ospedale e alle cure intense. Lui, io e altri tre colleghi della Scuola cantonale di commercio abbiamo trascorso insieme una ventina di minuti. Il dialogo verteva sulle recentissime votazioni cantonali, la vittoria socialista, che veniva commentata con preoccupazione da alcuni presenti, sintonizzati sulla mancanza di danari nelle casse del Cantone. Lui disse di aver sentito, e riportò, il discorso di un’ascoltatrice della trasmissione Controcorrente, che ascoltava assiduamente, ammaliato dagli sfoghi di un popolo capace del meglio e del peggio. Bisogna riflettere sul rapporto tra lavoro e malattia, che sempre di più incide sui costi della salute. Ma quando vide che quell’idea guadagnava consenso, subito si schermì, non posso nemmeno dire che l’idea è mia, disse, l’ho sentita anch’io come voi.
L’altro episodio risale a qualche anno fa, durante un consiglio di classe che aveva come ragion d’essere la discussione intorno a una ragazza di sedici anni, che dopo un anno tutto sommato svogliato, si ritrovava, nonostante le palesi doti, ad aver bisogno del sostegno dei docenti per superare la classe. Quella votazione la perdemmo, e la ragazza fu costretta a ripetere. Giorgio non era un lottatore, non cercava le parole persuasive e roboanti, durante quel consiglio intervenne però due volte, perché la paura di perdere quella studentessa, di lasciare che la scuola smettesse di occuparsene, era troppa. Uscì sopraffatto, probabilmente perché percepì in molti dei docenti un accanimento che, dal suo punto di vista, normalmente disposto a comprendere gli altri e le loro ragioni, questa volta lasciava vincere il male cinque a zero.
Giorgio si è occupato sempre discretamente, umilmente, delle persone che avevano a che fare con lui. Non si è mai imposto, non ha mai cercato i riflettori, eppure era sempre lì, al suo posto, capace di dire una parola e di volere bene ai suoi colleghi, molto di più ai suoi allievi, che come il suo cane guidava senza che loro se ne accorgessero. Oppure erano loro a guidare lui, ed è per questo che sorrideva sempre.