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Il maggioritario? Mai più

(Ti-Press)

Ogni tanto, anche nelle nostre istituzioni politiche, affiorano disfunzioni che suscitano la tentazione del sistema maggioritario, spesso considerato più efficace, più capace “di decidere”, rispetto al regime assembleare: non è la soluzione, anzi rappresenta una deriva pericolosa per la democrazia. Ecco perché.

Innanzitutto, il maggioritario può riferirsi allo scrutinio. In questo caso, in ogni circoscrizione elettorale, vengono eletti solo i candidati del partito che ottengono più voti. Gli altri, anche se hanno raccolto una parte significativa di consenso, restano esclusi. Si tratta di una vera e propria distorsione democratica. Infatti oggi, salvo eccezioni come il Regno Unito, dove pure la tradizionale alternanza tra due partiti si sta incrinando, i partiti medi e piccoli rappresentano una parte crescente dell’elettorato. Di conseguenza, un parlamento così eletto, non rappresenta più la realtà sociale e politica della nazione (il Sovrano), perché perde, giuridicamente, la legittimità; quindi, anche il potere democratico; quindi, costituisce un ulteriore passo verso il progressivo divario tra istituzioni e cittadini; quindi, si traduce in un disagio democratico. Appunto per questo lo scrutinio proporzionale si è affermato in quasi tutti i Paesi europei.

Però, di solito, ci si riferisce al maggioritario parlamentare classico, perché è assai diffuso e comporta problemi. Esso presuppone la presenza, da una parte, del capo dello Stato (presidente o monarca) che incarna la nazione; quindi, politicamente irresponsabile, pur avendo grande autorità morale (ne è un esempio il presidente Mattarella); dall’altra, il primo ministro che personifica un programma; quindi, politicamente responsabile. Il suo funzionamento è noto: il capo dello Stato delega a un esponente appartenente al partito che ha vinto le elezioni il compito di elaborare un programma da sottoporre all’approvazione parlamentare. Dato che, salvo rare eccezioni, nessun partito ha la maggioranza assoluta che gli consenta di attuarlo da solo, in parlamento si forma, da una parte, la coalizione dei partiti di governo, dalla quale il delegato (diventato primo ministro) estrae i membri del suo Esecutivo per attuare il programma e, dall’altra, l’opposizione che lo avversa. Il destino del primo ministro dipende dalla fiducia accordatagli dalla coalizione. Se questa fiducia viene meno perché il programma non viene attuato o perché la coalizione ha modificato le sue direttive, cadono programma e governo ed è la crisi, la quale rimette in movimento il meccanismo della costituzione di un nuovo governo attorno a un altro programma, incarnato da un nuovo delegato suscettibile di diventare primo ministro.

Nulla di tutto questo si riscontra nel regime assembleare, il nostro, nel quale la funzione di capo dello Stato è puramente emblematica, tanto è vero che viene esercitata a turno dai membri dell’Esecutivo. Inoltre, pure questi ultimi sono nominati dal popolo con il sistema proporzionale. Ne segue che tutti i partiti maggioritari sono rappresentati nel governo, il quale non può venir rovesciato dal legislativo; non solo, ma se una sua proposta non viene accettata da quest’ultimo, invece di deporre la fiducia e dimettersi, cambia programma. Quindi, visione pluralistica e genuina della politica e della stabilità del governo. Inoltre, a differenza del maggioritario, che favorisce logiche di polarizzazione e spesso apre la strada al nepotismo (che poi si diffonde anche sia nell’esecutivo sia nel giudiziario, amministrazione compresa, in quanto la coalizione si è presa tutto), il sistema proporzionale valorizza il confronto, la dialettica dalla quale scaturisce il compromesso che, generalmente, è la soluzione migliore.

In questo schema, il legislativo è il centro effettivo della vita politica e sociale: riceve il potere direttamente dal popolo; quindi, ne cede parte agli altri organi, rispondendo di tutti i suoi atti, nomine comprese, nei confronti di quest’ultimo, tramite il referendum, l’iniziativa, le prossime elezioni e, in casi gravi, la piazza. E siccome responsabilità e potere formano un binomio inscindibile, al legislativo spettano non solo le nomine, ma anche la destituzione dei giudici. A questa conclusione (ossia la centralità del legislativo) si giunge anche partendo dal diritto naturale, ossia dalle “regole della ragione professate dagli individui senza essere sottoposti a nessuna autorità”, secondo la definizione di Grotius (1583-1645), concetto sviluppato e completato da Montesquieu (1689-1755) in ‘Lo spirito delle leggi’ e da Rousseau (1712-1778) in ‘Il Contratto sociale’.

E se l’esecutivo, come da noi, è cessionario diretto del Sovrano? In questo caso, occorre stabilire un ragionevole equilibrio tra i due poteri, legislativo ed esecutivo: niente di più difficile. Però, per governare, è inevitabile che uno dei due debba avere la prevalenza sull’altro, ma ancora conciliabile con la separazione attenuata dei poteri che consenta la loro collaborazione: l’uno può influenzare o criticare l’altro senza sostituirsi. È quello che appunto propone Montesquieu, poiché non parla di separazione, ma di “bilancia dei poteri”. Tuttavia, al legislativo, emanando le leggi, deriva una certa superiorità giuridica, perché la legge è sovrana: regola tutto ed è uguale per tutti. Emblematico è il rapporto tra legislativo e giudiziario: la separazione dei poteri si riferisce solo alla sostanza del giudizio, ma per l’organizzazione dell’organo e il comportamento dei giudici, il legislativo ha il dovere di intervenire, perché deve rendere conto al Sovrano. Non solo, la giustizia nella Giustizia sarebbe null’altro che il Tribunale dei pari o di classe, istituzione di derivazione feudale medioevale, suscettibile di erigersi in casta e di sfociare in ”governo dei giudici”, falsando il normale funzionamento delle istituzioni, come lo attestano i conflitti di potere al di là dei nostri confini.

In definitiva, non sorprende che perfino negli Stati a lunga tradizione maggioritaria, si stia riscoprendo il valore del sistema proporzionale. Non per nostalgia o ideologia, ma per necessità: solo una rappresentanza legittima di tutte le sue componenti garantisce stabilità, giustizia ed efficacia e questo è possibile solo con il “compromesso” tra le forze politiche, eretto a cultura istituzionale: quindi, mai più il maggioritario e largo anche ai piccoli partiti.