L'applicazione di tariffe doganali è paragonabile, per assurdità e scarsa efficacia, alle manipolazioni valutarie di una qualsiasi repubblica delle banane
Ci sono almeno due immagini da associare alla bizzarra scena di un uomo anziano con una specie di lavagna in mano, intento a spiegare come stanno le cose. La prima immagine è sacra, la seconda piuttosto profana.
In ordine cronologico. Racconta la Bibbia (Libro dell’Esodo) che quando Mosè scese dal Monte Sinai – la prima volta – con le Tavole della Legge che Dio gli aveva consegnato, ritrovò il suo popolo ad adorare il Vitello d’oro e in un raptus di ira le spaccò. Evidentemente gli ebrei, dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto, non erano ancora abbastanza timorosi della forza di Dio. Poi lo furono: i Dieci Comandamenti vennero riscritti e conservati nell’Arca dell’Alleanza, diventando di fatto il decalogo morale delle tribù israelite.
Ci sono poche leggi – commerciali – scritte sulla pietra, o che almeno vengano rispettate come tali, nei Paesi del terzo mondo. Per le strade di una qualsiasi capitale latinoamericana capita di incrociare a più riprese i vecchi furbi delle lavagnette, i cambisti (a Buenos Aires, per esempio, li chiamano gli ‘alberelli’), pronti a offrire dollari, euro, franchi o quel che serva al miglior corso. Corso che nel giro di poche ore o giorni può oscillare notevolmente, manipolato dal governo di turno, il quale bypassando la presunta autonomia dell’autorità monetaria locale spinge per una svalutazione che renda per “miracolo” più competitive le esportazioni, nella speranza che ciò aiuti a ridurre il deficit o a incrementare il surplus della bilancia commerciale, in modo da ricavare le risorse necessarie per onorare gli impegni con i creditori stranieri (in primis con il Fondo monetario internazionale a guida Usa).
Decisamente Trump assomiglia più a un alberello che a un profeta. Un alberello, presidente della prima potenza economica e militare del mondo, che sventola le sue Tavole dei dazi, convinto di incarnare un compito divino e in grado di condizionare le sorti (economiche, ma non solo) del pianeta con le sue scelte. Un uomo circondato da un entourage ben consapevole che, allo stato attuale, non esiste alcun meccanismo multilaterale in grado di sostituire l’egemonia del dollaro, di cui gli Stati Uniti detengono il monopolio dell’emissione.
L’applicazione di tariffe doganali sulle merci importate da gran parte dei Paesi terzi (31% per la Svizzera, 20% per l’Ue, quasi il 50% per Stati come Vietnam, Cambogia e Laos) è infatti paragonabile, nella sua assurdità e nella sua molto probabile scarsa efficacia, alle manipolazioni valutarie adoperate da una qualsiasi repubblica delle banane, spesso succube delle pressioni americane. Ma quali sono i possibili effetti dei dazi per l’economia Usa e, a cascata, per quella mondiale? Aumento dei prezzi, paralisi, recessione, crisi.
La storia insegna che i grandi Imperi, nei momenti in cui avvertono i segni della loro decadenza, agiscono in due modi, uno ben concreto, l’altro piuttosto metafisico: da un lato tendono a incrementare i tributi (fino ad asfissiare i loro sudditi); dall’altro provano a fare appello a una retorica mistificatrice della realtà, che mira a nascondere le proprie debolezze. Una commistione che, di solito, va a esacerbare le tensioni già esistenti e che finisce per accelerare il processo di decomposizione dell’organismo egemonico.
Dove ci porta tutto ciò? Non è chiaro, ed è quello che più spaventa.