Il presidente USA rivendica di fatto un’altra globalizzazione, imposta con la forza, a guida americana
Dimentichiamo per un momento i proclami più squinternati lanciati in mondovisione con un linguaggio da bambino disturbato di dieci anni, ignoriamo, ma solo per lasciar spazio alla riflessione, volgarità, xenofobia, razzismo, deportazioni, megalomania, casinò e hotel 5 stelle a Gaza. Cerchiamo di capire se sotto il berretto Maga, nella mente distorta del presidente, si annida una logica. Esercizio necessario, seppur non facile, se si pensa che nel 2017 Trump aveva posto termine in un baleno a 75 mesi consecutivi di crescita economica e che nel secondo mandato gli sono bastati due mesi per far crollare la borsa, far barcollare il sistema pensionistico e minare le prospettive occupazionali dopo aver ereditato da Joe Biden il tasso di disoccupazione più basso dell’ultimo mezzo secolo. Jerome Powell, presidente della Fed, paventa oggi rallentamento economico e inflazione con i rischi connessi di un aumento del costo del denaro. Per JPMorgan la recessione mondiale è ormai dietro l’angolo. Il “libération day” che preannuncia il “golden age” dovrebbe liberare gli Stati Uniti dagli effetti nefasti della globalizzazione in corso dalla fine della seconda guerra mondiale e che ha conosciuto un’impennata con l’adesione della Cina all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) nel 2001. Utile ricordare, come fa il Washington Post, che Trump si è formato alla Wharton School of Finance, il cui credo trae linfa dalle teorie di Joseph Wharton, un industriale del XIX secolo, adepto dell’autarchia economica. Come molti fenomeni complessi, la globalizzazione ha portato benefici e scompensi. Secondo un’analisi della G. Mason University, i tre quarti degli americani hanno ampiamente profittato del libero commercio con la Cina, il rimanente 25% – in buona parte con scarsa formazione scolastica – ha visto il proprio livello di vita ristagnare se non peggiorare. Per questi orfani della globalizzazione, vittime del “china shock”, Bill Clinton aveva introdotto dei programmi di assistenza rivelatisi però insoddisfacenti. Già in precedenza, nel 1994, il trattato Nafta (accordo di libero scambio con Canada e Messico) aveva suscitato non poche reticenze e critiche; ma sull’altro piatto della bilancia vi furono enormi benefici, come il raddoppio in pochi anni del Pil statunitense. La perdita di posti di lavoro nella manifattura statunitense è certamente uno degli effetti perversi del “free trade”, tuttavia gran parte dei posti di lavoro sono scomparsi negli ultimi anni non tanto per la delocalizzazione in Paesi a basso costo del lavoro, ma per l’automatizzazione e la digitalizzazione. L’aumento vertiginoso dei dazi mira dunque a un’inversione di un trend problematico per l’industria, ma che ha fatto degli Stati Uniti la superpotenza economica mondiale. Il capopopolo dell’America First sarebbe allora un esponente no-global, eroe seppur improbabile dei movimenti nati a Seattle nel 1999? Non proprio. Il presidente, campione delle deregulation interna e dello smantellamento del welfare, è certamente protezionista, ma mira a un nuovo ordine mondiale, privo di regole eque (Trump si oppone ad esempio all’imposizione minima del 15% per le multinazionali). Trump rivendica di fatto un’altra globalizzazione, imposta con la forza, a guida americana. Non a caso è sostenuto proprio da quell’oligarchia che dal mercato mondiale ha tratto profitti galattici.