Il confine sottile tra il disarmare le parole, come dice il Papa, e stravolgerne il senso, cercando di confondere le acque
Entro 48 ore 14mila bambini potrebbero morire a Gaza se non giungono aiuti immediati. Si profila all’orizzonte lo spettro di un’ennesima strage, un nuovo agghiacciante scenario. L’allarme lanciato ieri dall’Onu sembra aver sbloccato le parole dopo la lunga striscia di esitazioni ed eufemismi.
Macron, Starmer e il premier canadese Carney ora sbottano: “Non resteremo con le braccia incrociate di fronte alle azioni scandalose del governo israeliano a Gaza”. Di fronte all’insostenibile, la comunicazione esce dall’involucro di plastica nel quale l’aveva confinata una prudenza che sfiora a volte la complicità.
Nei loro appelli per “disarmare le parole” i due pontefici Francesco e Leone XIV, invitavano a cancellare dal linguaggio pregiudizi, odio, falsità. Che invece oggi imperano. Perché affermazioni e discorsi poi possono diventare fatti. Le parole per dirlo: da sempre anche il lessico è parte integrante della guerra. Lo sa bene il padrone del Cremlino quando annuncia un’“operazione speciale” per “denazificare” un Paese che da tre anni ha messo a ferro e fuoco. Non si tratta dunque per Putin e follower di una guerra di aggressione, mentre l’epiteto “nazista” viene appioppato alle vittime, non ai carnefici.
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Fate l’amore, non fate la guerra
L’esercito israeliano avanza con i tank tra le macerie di un Paese che ha distrutto, al motto di “sterilizzare” (sic!) le aree di cui assume il controllo: via dunque i palestinesi, considerati alla stregua di parassiti o insetti, da molte aree conquistate. Parole armate, che fanno tornare alla mente anche i fantasmi del passato in Europa.
“La nostra è una guerra di civiltà contro la barbarie” dice Netanyahu: civiltà, democrazia, parole che alla luce della mattanza risultano del tutto svuotate di senso. Il mostro, l’aguzzino è sempre “l’altro”. Anche e soprattutto per noi giornalisti si pone il problema della scelta di un lessico che rifletta la realtà: per questo Bbc e Agence France Press hanno bandito il termine “terrorista” nei loro articoli. Che le parole siano determinanti era noto anche nell’antichità e il celebre termine aramaico “abracadabra” significherebbe proprio questo: le parole creano i fatti.
La semantica non è mai neutra, i termini usati traducono una scelta di campo, oppure la pura ricerca della verità. In Palestina è in corso una pulizia etnica, nei territori occupati vi è un regime di apartheid altrettanto evidente. Ma è soprattutto il termine genocidio a dividere per la sua connotazione storica. Eppure è ben codificato dalle Nazioni Unite: numerose Ong, diversi studiosi dell’Olocausto, la relatrice dell’Onu per i territori palestinesi lo utilizzano e per questo sono oggi tacciati di antisemitismo da ambienti del governo di Israele. Solo Netanyahu sembra autorizzato a usarlo... ma per definire la strage del 7 ottobre. Inappropriate sono le parole delle menzogne, certo, ma anche quelle che denotano ambiguità e doppi standard (nei confronti di Russia e Israele).
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Gaza distrutta
Infine ci sono i silenzi di diversi Stati, quelli che potrebbero configurare alla Corte Internazionale di Giustizia accuse di complicità in genocidio. Parole giuste e silenzi: una scelta di coerenza, dignità, a volte di coraggio. In un racconto di Wolfgang Borchert, testimone tedesco degli orrori della Seconda guerra mondiale, due personaggi si interrogano sul silenzio di fronte all’orrore. Dio tace – si interroga uno. Sì ma Dio ha una scusa: non c’è – risponde l’altro. Però noi ci siamo – replica sussurrando il primo.