Il tempo non è più l’innocuo argomento di conversazioni pigre con cui superare silenzi imbarazzanti. Temperature e precipitazioni non rappresentano più moderate oscillazioni all’interno di un clima costante e prevedibile, ma sono sintomi di un sistema sempre più instabile.
L’aumento della temperatura non significa semplicemente che fa più caldo, una situazione alla quale possiamo immaginare di adattarci con relativa facilità. Significa che i cicli naturali si rompono, che nell’ambiente circola molta più energia e che eventi estremi diventano più frequenti e intensi. Significa ecosistemi che collassano in meccanismi a cascata difficili da prevedere e che non si limitano all’ambiente. Significa territori che si fanno più fragili. Che si parli di vallate alpine minacciate da frane dovute al cedimento del permafrost o di villaggi e città minacciati dall’erosione delle coste e innalzamento dei mari, il problema non è semplicemente il caldo.
Il tempo dovrebbe essere uno dei temi più urgenti del nostro dibattito pubblico, eppure tende a sfuggire alla nostra attenzione. Come tutti i fenomeni graduali, il riscaldamento globale riesce a infiltrarsi nella nostra quotidianità. La nostra percezione del rischio privilegia l’immediato e lo spettacolare mentre i processi lenti scivolano fuori dal nostro radar cognitivo. Anche se possono essere ben più pericolosi: le vittime delle ondate di calore superano, e di molto, quelle di uragani e altri disastri naturali ben più appariscenti. È un meccanismo cognitivo ben documentato: temiamo più gli squali delle zanzare, eppure sono queste ultime, trasmettendo malattie, a causare molti più morti.
I cambiamenti climatici diventano parte di una “nuova normalità” che fatichiamo a notare: spostiamo continuamente il nostro punto di riferimento e la situazione ci sembra sì peggiorare, ma di poco. È un fenomeno noto – è dagli anni Novanta che si parla di ‘Shifting Baseline Syndrome’ – ma con i quali non riusciamo a fare i conti. I tentativi di correggere questa tendenza della nostra mente spesso falliscono: a raccontare le ondate di caldo come fossero uragani si passa per allarmisti e catastrofisti; senza dimenticare il rischio che, se si pensa che non ci sia più niente da fare, non si farà niente. Ci troviamo così in una duplice trappola: da un lato la sottovalutazione sistematica dei fenomeni graduali, dall’altro l’effetto paralizzante dei messaggi troppo catastrofici.
A questo dobbiamo aggiungere gli interessi di quella parte del mondo economico che, quando va bene, considera la sostenibilità un comodo slogan per aumentare le vendite mentre continua a fondare il proprio successo sulla disponibilità di energia, ovviamente fossile, a buon mercato e sull’usa-e-getta. Quando va male, invece, quel mondo economico fa ricorso a campagne di disinformazione per vendere, insieme ai propri prodotti, dubbi che garantiscano loro di continuare come prima. Una confusione che alimenta una percezione distorta dell’incertezza scientifica.
Il tempo non è più un ozioso argomento di conversazione, ma non perché sia diventato un tema da prendere sul serio. È piuttosto un argomento da evitare, o al contrario da cercare se si ha voglia di litigare, magari sui social media. Così, anche se una parte importante della popolazione prende sul serio la crisi climatica ed è disposta a fare la propria parte, alla fine si resta intrappolati in un sistema che guarda altrove e rimanda interventi decisi.
È il caldo. Ma non è solo il caldo. E il problema non sparirà con i primi giorni di temperature nella media.