laR+ IL COMMENTO

Le mani pulite di Sala e il passato che non passa

La politica in Italia ricorda un incontro di lotta libera in assenza di gravità: abbracci mortali, colpi bassi, ma nessuno che finisca mai davvero ko

In sintesi:
  • Le pagine di interni e giudiziaria dei quotidiani italiani potrebbero essere scambiate con quelle del 1992
  • L’Italia è un Paese così terrorizzato dal presente che entra regolarmente in fuga dissociativa
Un lapsus rivelatorio?
(Keystone)
24 luglio 2025
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“Le mie mani sono pulite”. Quando il sindaco di Milano Beppe Sala ha provato a scrollarsi così di dosso lo scandalo-corruzione che fa tremare la sua giunta, un brivido deve aver percorso le file della sala consiliare, come in quegli horror in cui un personaggio evoca un demone antico che si credeva sepolto, e al suono di quel nome si sentono nitriti di cavalli e rumore di vetri rotti. Possibile che quella di ‘Mani Pulite’, l’inchiesta che nei primi anni Novanta partì proprio da Milano e spazzò via la classe politica italiana della Prima Repubblica, sia da parte del sindaco una citazione innocente? E se non lo era, che tipo di analogia col passato intendeva tracciare Sala? Forse tentava di accostarsi ai politici di allora che, pur spesso condannati con prove schiaccianti, nello sbracato e al contempo bonapartista clima odierno sono considerati dei perseguitati? O magari era un lapsus rivelatorio, un’inconscia ammissione di colpevolezza come sostiene Fedez, che per fortuna fa il rapper (o insomma qualunque mestiere faccia) e non l’analista freudiano?

La vera notizia non è infatti che a Milano, una città con gli stipendi di Varese e gli affitti di New York, si compiano giravolte e illusionismi edilizi anche spregiudicati (chi l’avrebbe mai detto), quanto che in Italia neppure il più confortevole e performativo degli antichi sentimenti nazionali, l’indignazione, sembri più disporre di un immaginario proprio e attuale. Contrariamente a quanto si dice l’Italia non è un Paese che vive nel passato, perché il proprio passato non lo conosce e non lo studia, ma un Paese così terrorizzato dal presente che entra regolarmente in fuga dissociativa verso periodi percepiti come momenti di palingenesi, o di infanzia collettiva. Nel Belpaese non c’è ormai questione, che si tratti di referendum, separazione delle carriere dei magistrati o toponomastica, che non si risolva in una baruffa isterica sulla Liberazione, sugli anni di piombo o su Tangentopoli. E del resto, chi può fare davvero una colpa agli italiani se per immaginare un qualche cambiamento si rivolgono alle forze trascendenti della Storia piuttosto che a quelle più ordinarie delle urne elettorali? La politica in Italia ricorda da sempre un incontro di lotta libera in assenza di gravità: abbracci mortali, colpi bassi, mosse efferatissime, ma nessuno che finisca mai davvero ko. Dal regime fascista a mezzo secolo di potere democristiano, fino a vent’anni di avanspettacolo berlusconiano, il regime change nello Stivale è sempre stato una questione più poliziesca che politica, che si trattasse di pistole, di manette o di signorine che fanno il mestiere più antico del mondo.

Fa comunque impressione sfogliare le pagine di interni e giudiziaria dei quotidiani italiani di questi giorni, che potrebbero essere scambiate con quelle del 1992. Un po’ perché i giornalisti sono in gran parte gli stessi, impegnati direbbe De André a dar buoni consigli contro la gogna mediatica non potendo più dare il cattivo esempio. E in parte perché sono gli stessi i protagonisti: l’ex pm e ministro Antonio Di Pietro, per esempio, implacabile demiurgo delle inchieste di trent’anni fa, che oggi (sic transit gloria mundi) implora invece: “Non fermate Milano per un sospetto”.

Davvero per l’Italia il passato è destinato a non passare mai? Una tremula luce futuribile a dire il vero ci sarebbe, un ricchissimo imprenditore che proprio negli scorsi giorni ha ammesso che sta pensando di entrare in politica, per riformare un sistema travolto dagli scandali e dall’impotenza dei partiti tradizionali: si chiama Pier Silvio Berlusconi.