Sulla ‘linea di fuoco’ dopo l’accrocchio la ministra socialista ha tentato di imboccare una via di uscita, lasciando senza risposta la questione centrale
Ai tempi di Lorenzo Erroi alla testa del settimanale ‘Ticino 7’ (quando – come va dicendo un attento osservatore – l’attuale responsabile del Dipartimento cultura e società della Rsi “faceva servizio pubblico prima di andare a lavorare al servizio pubblico”) c’era una rubrica chiamata ‘Libere associazioni’: si trattava di tracciare un collegamento tra due opere artistiche a priori sconnesse. Un bell’esercizio. Tanto che vale la pena riproporlo, per esempio affermando che ‘Un giorno di ordinaria follia’ (film del 1993 diretto da Joel Schumacher) potrebbe essere considerato una sorta di spin-off del racconto ‘L’autostrada del Sud’ (Julio Cortázar, 1966). Infatti, di fronte a un grande ingorgo in un periodo di caldo torrido ci sono diverse possibili reazioni: c’è chi sbrocca, c’è chi prova a fare dell’imbottigliamento la sua condizione di vita e c’è chi, invece, si ostina a cercare una via di uscita, anche quando non esiste. Il Consiglio di Stato appartiene a quest’ultima categoria: impantanato nel pasticcio dell’arrocco preteso dai due ministri leghisti, ha infine optato all’unanimità per una soluzione di compromesso, in nome del “quieto vivere” governativo.
In questa vicenda appare particolarmente incoerente la posizione di Marina Carobbio. Incoerenza messa ancora più in evidenza dal goffo tentativo della direzione del Ps di difendere il suo operato. Sono infatti due – e complementari – le possibili interpretazioni di perché la dirigenza si è sentita in dovere di scrivere che la decisione dell’Esecutivo “è comprensibile”, visto che il governo “ha dovuto trovare una soluzione che riduce al minimo i danni”. La prima ipotesi porta a pensare che la gestione “luminocentrica”, dove una sorta di simbiosi tra la direttrice del Decs e la copresidente Laura Riget starebbe distorcendo le dinamiche partitiche (creando non pochi malumori interni), abbia giocato un ruolo preponderante nella scelta comunicativa. Ci sarebbe poi l’antefatto, e qui tornano in mente alcune dichiarazioni del presidente del Centro Fiorenzo Dadò: in Val Bedretto, per certi consiglieri di Stato non c’era più il margine per un “no” secco alla proposta leghista di arrocco, perché prima delle sbruffonate sul Mattino e all’apertura dell’anno giudiziario si erano dimostrati possibilisti, rendendosi di fatto corresponsabili del successivo pasticcio istituzionale. Si è molto parlato dei liberali, ma più fonti indicano che pure Marina Carobbio facesse parte della (potenziale) maggioranza qualificata data per assodata in via Monte Boglia.
Consumato l’accrocchio e trovatasi sulla “linea di fuoco” (si veda ‘Chiedetelo a Marina’, di Fabio Dozio su ‘naufraghi.ch’), Carobbio, sempre affiancata da Riget, ha tentato di imboccare una via di uscita: il legittimo rimprovero al sottoscritto per l’omissione dei loro nomi e cariche – priva di qualsivoglia intenzione denigratoria o sminuente – nel commento dello scorso 15 luglio. Uno “scivolone” involontario (residui di maschilismo inconscio?) per il quale risultano doverose delle pubbliche scuse a entrambe.
Resta tuttavia senza risposta la questione centrale: quella politica. E senza un vero confronto “sulle idee e sui contenuti” la fondamentale battaglia per la parità di genere rischia di apparire, in questo caso, una specie di fuga per la tangente. Che richiama, tra l’altro, un inciampo piuttosto ricorrente di una certa sinistra: quella di fare – a giusta ragione – la voce grossa in difesa dei diritti civili, salvo poi giocare a nascondino quando si tratta di contrastare chi prova a calpestare i diritti sociali e le istituzioni.
Certo che così sarà difficile uscire dall’ingorgo.