La montagna non è ‘il parco giochi delle città’ ma un luogo comunitario che attraversa un’epoca di cambiamento. Tra ripopolamento e disastri naturali

Per secoli le Alpi sono state considerate un ambiente misterioso, ostile e poco adatto all’uomo. Eppure, fin dall’antichità l’essere umano vi ha reperito risorse e messo a punto strategie di vita e di sfruttamento del territorio, attraverso un lungo processo di colonizzazione che ha portato alla formazione di un territorio progressivamente antropizzato.
È così nata una cultura peculiare, con un’intima dimestichezza con i fenomeni ambientali, affiancata da una tecnologia pratica e soluzioni tramandate dalla memoria collettiva.
Queste conoscenze vernacolari convivono oggi con la modernità: nuove pratiche residenziali, modelli economici e stili di vita urbani stanno creando forme ibride in cui l’alterità montana si alimenta di riferimenti cittadini. Negli ultimi anni varie dinamiche – turismo, mobilità, pluriresidenzialità, telelavoro – stanno ulteriormente trasformando lo spazio alpino, modificando i confini tradizionali tra centro e periferia.
Il rapporto con la natura resta tuttavia una sfida concreta. I disastri recenti avvenuti a Blatten, in Vallemaggia e a Brienz – per citarne alcuni – hanno mostrato tutta la fragilità di un equilibrio che può rompersi all’improvviso. Luigi Lorenzetti, Professore titolare presso l’Accademia di architettura dell’USI e coordinatore del Laboratorio di Storia delle Alpi, ricorda che “catastrofi naturali sono sempre avvenute nel passato”. Certo, il cambiamento climatico oggi “svolge un ruolo importante”, ma gli eventi estremi “spesso hanno ciclicità decennali o secolari”. Per questo “la memoria e la cultura del rischio sono state per lungo tempo strumenti vitali per la sopravvivenza”: non solo non si costruivano “abitati, ma neppure stalle o cascine” in luoghi che la gente sapeva pericolosi. Vi era “un sapere dettagliato sulle zone a rischio, su come costruire e su quali precauzioni prendere per ridurre la vulnerabilità. Le stesse forme architettoniche, ad esempio in forma ipogea o semi-ipogea con il tetto che segue il dislivello, permettevano di ridurre il rischio di distruzione in caso di valanghe”. Laddove si contavano danni e vittime, era a seguito della perdita della memoria storica dei rischi legati a eventi che avevano una ricorrenza secolare.
Oggi la cultura del rischio “tradizionale” è affiancata e in qualche caso sostituita dalla tecnologia e dal sapere degli specialisti: monitoraggi, strumenti di allerta, infrastrutture di protezione hanno migliorato la capacità di prevenzione. Lorenzetti sottolinea però un paradosso, poiché la totale fiducia nella tecnica ci ha spinto a ignorare i limiti che ci pone la natura. Di conseguenza “nel XX secolo si è talvolta costruito là dove non si doveva”, portando a un’accresciuta esposizione al rischio. Ma “il rischio zero non esiste”, e il prezzo di questi errori può essere elevato in termini ambientali, sociali, economici e umani.
Un altro livello di rischio deriva dalla pressione esercitata dal turismo di massa sui delicati equilibri ambientali alpini. Oltre alla scomparsa di superfici agricole, al calo della biodiversità e all’impatto paesaggistico, il consumo del suolo causa la perdita di importanti funzioni ecosistemiche.
Inoltre, durante i picchi stagionali, la pressione antropica accresce fortemente i consumi idrici aggravando i problemi di approvvigionamento. Di fronte a questo quadro, Lorenzetti invita a “fare scelte consapevoli: vogliamo mantenere delle località vive, che consentano ai loro abitanti di viverci, oppure preferiamo località costruite per il turismo, in preda alla gentrificazione e che vivono tra neve artificiale e centri wellness?”.
Un tema parallelo è la transizione energetica: con la corsa ai parchi solari in montagna (“il nuovo El Dorado”) rischiamo di ripetere “gli errori fatti all’epoca della costruzione dei grandi impianti idroelettrici”, realizzati talvolta senza tener conto degli interessi delle popolazioni locali e delle loro economie e “senza badare agli impatti ambientali e paesaggistici”.
Lorenzetti rileva infine la necessità di superare l’immagine della montagna come “parco giochi” delle città, eredità di un immaginario che risale all’800 («The Playground of Europe» è il titolo di un libro sulle Alpi pubblicato nel 1870) e che ha nutrito stereotipi della montagna come luogo di svago e relax.
“Dobbiamo prendere coscienza che la montagna è altro – prosegue il Professore dell’USI –. È un ambiente complesso, con valori economici, ecologici e culturali propri, e richiede di essere compreso per ciò che è, non solo come cornice per il tempo libero. Per certi versi dobbiamo superare il ‘paradosso’ che ha attraversato la modernità, che ci ha spinto a cercare e scoprire la natura, ma attraverso la mediazione artificiale della tecnologia”.
Tuttavia, è proprio anche grazie alla tecnologia che alcuni settori dell’arco alpino si stanno ripopolando. Non stiamo parlando di villeggianti, ma di “nuovi montanari” che scelgono di stabilirsi in montagna grazie alla digitalizzazione, al lavoro a distanza o ad attività imprenditoriali che non esigono la presenza quotidiana in città. “Tecnologicamente si può fare”, osserva Lorenzetti, anche se riguarda solo alcune categorie professionali e alcuni settori del terziario. Una tendenza, quella del “vado a vivere in montagna”, emersa fin dalla fine degli anni 90 soprattutto nelle Alpi italiane: villaggi o valli intere ormai quasi prive di abitanti oggi ne contano centinaia. “Fenomeni puntuali e modesti”, specifica il professore, alimentati ulteriormente dagli anni della pandemia di Covid-19, che però attestano una significativa inversione di tendenza.
È tuttavia importante precisare che molte di queste presenze sono pluriresidenziali – persone che alternano periodi, anche lunghi, tra città e montagna. Per altri, la scelta della montagna coincide con una presenza più stabile. Come i “neomontanari”, ovvero individui con formazione superiore e progetti imprenditoriali innovativi in campo agricolo, nella trasformazione dei prodotti, nel turismo sostenibile, o coloro che scelgono la montagna perché offre una vita più a buon mercato e a misura d’uomo.
La domanda cruciale, ora, è se questi ritorni saranno durevoli nel tempo. Per Lorenzetti il cambiamento climatico e le condizioni di vivibilità nelle città, con ondate di calore estive a 35-38 °C (un problema che causa costi sociali ed economici enormi) potranno spingere alcune persone a cercare luoghi con climi più tollerabili: “Già a 1’000 metri la differenza di temperatura, soprattutto di notte, può fare la differenza”.
Tuttavia, chi sceglie la montagna mantiene generalmente un rapporto stretto con la città per ragioni economiche e sociali: lavoro, servizi specialistici, reti di relazione. Al momento, dunque, è difficile sapere se questo fenomeno durerà nel tempo. Secondo Lorenzetti, per invertire le attuali logiche di mercato “occorre tornare a vedere la montagna come spazio produttivo e non solo uno spazio d’uso e di consumo. Al contempo, occorre ritrovare le virtù della prossimità, attraverso reti di servizi che ricostituiscano i tessuti sociali locali”.
Arriva imprevedibile il giorno dell’evento estremo che distrugge e obbliga ad abbandonare tutto, e la comunità si trova a dover decidere se ricostruire oppure no. Come in Vallemaggia, come a Brienz, come a Blatten. Secondo Lorenzetti “la gente di montagna ne è cosciente e tutto sommato lo accetta. Per questo ritengo che chi lo desidera debba avere la possibilità di tornare a vivere là dove sempre ha vissuto, anche se questo avrà costi elevati”.
“L’importante – prosegue – è distinguere tra i diversi eventi, tra quelli che hanno una ciclicità pluridecennale e quelli con una ciclicità secolare. È noto che in Vallemaggia a scadenza venti-trentennale si verificano importanti alluvioni. Già nel 1868 ve ne fu una disastrosa, che costrinse all’emigrazione centinaia di persone che si trovarono all’improvviso senza più case, senza più terreni e senza più bestiame”. Diverso è il caso di Blatten, la cui catastrofe è legata a un evento “unico” nella storia del villaggio, così come diverso è pure quello di Brienz, un villaggio in cui l’evento distruttivo non si è ancora verificato, per cui “è impossibile, per ora, pianificarne il futuro”.
Vi è tuttavia un rischio comune a tutte queste diverse comunità, ovvero “che la comunità si sfaldi, anche nel caso in cui si diano le condizioni per tornare”. Una questione di tempistica: “Se la ricostruzione avviene in tempi lunghi – rileva Lorenzetti –, gli abitanti trovano sistemazioni alternative e si rifanno un’altra vita. Di conseguenza ricostruire a dieci o vent’anni di distanza dalla catastrofe è sovente un’operazione artificiosa”.
Emblematico, in questo senso, quanto verificatosi in Valtellina dopo l’alluvione del 1987: villaggi distrutti, ricostruiti dopo vent’anni, ma in cui nessuno degli abitanti è tornato. La ricostruzione di un abitato senza un progetto di ricostruzione del tessuto sociale preesistente rischia di mancare il suo scopo, ovvero ridare vita a una comunità che ha visto interrompersi in modo traumatico la sua quotidianità.
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