Se un tempo il percorso verso la professione era già scritto in base al tuo luogo di nascita, oggi la via è più fluida e a volte incerta
In pedagogia, la questione legata ai tempi e agli spazi dell’agire educativo ha sempre assunto grande importanza. Noi sappiamo che il lavoro con i bambini e i giovani necessita, per potersi adeguatamente sviluppare e consolidare, l’attenzione e la cura da parte degli adulti a queste due dimensioni: la relazione con un fanciullo o con un giovane necessita sia di un tempo sufficiente sia di uno spazio fisico adeguato in cui poter prendere forma e adeguatamente svilupparsi.
Questi due aspetti sono stati considerati, in passato e nella loro rilevanza, come qualcosa di intuitivo, anche perché senza tempo e senza spazio (adeguati), necessari per imbastire una relazione educativa, non si può sperare di ottenere nessun risultato concreto. Questi due concetti, però, negli ultimi decenni hanno subito una sorta di risignificazione che ha generato, nell’agire educativo, una profonda trasformazione; mutamento di senso che ha portato a non poche – e neppure banali – conseguenze per quanto attiene al lavoro che i pedagogisti e gli educatori sono quotidianamente chiamati a promuovere.
Proviamo a riassumere a grandi linee gli estremi di questa trasformazione. Per poterlo fare, dobbiamo prendere spunto da quanto accadeva, sul piano educativo, nella modernità. Ad esempio, per quel che concerne l’esercizio di una professione, fino ad alcuni decenni or sono la vita di un giovane poteva essere prevista, con buona approssimazione, guardando al contesto di vita da cui questi proveniva. Succedeva infatti assai frequentemente – direi: con quasi assoluta certezza – che chi nasceva figlio di un fornaio, avrebbe fatto il fornaio e chi nasceva figlio di una famiglia di avvocati, con buona probabilità avrebbe ripercorso la stessa strada o sarebbe rimasto, grossomodo, nel solco tracciato da questa professione. Tutto ciò stava a significare che i tempi e gli spazi dell’educazione erano già definiti in modo piuttosto chiaro: in particolar modo dalla tradizione e dal contesto sociale nel quale i bambini crescevano. Ciò stava a significare che ci sarebbe voluto approssimativamente quel lasso di tempo e uno spazio già sufficientemente definito per poter acquisire le capacità necessarie per esercitare questa o quella professione (ad esempio: due, tre o più anni di lavoro e un preciso ambiente con il quale potersi misurare). Nel nostro caso: la bottega del panettiere e lo studio di avvocatura. Poco o punto succedeva fuori di lì e questo consentiva, sia al giovane che a coloro che di lui si prendevano cura, di poter contare su un quadro spazio-temporale assai preciso e definito il quale – pur non lasciando grandi opzioni di manovra e di evoluzione soprattutto per il giovane – sosteneva in maniera concreta le opzioni maturate (scelte formulate, soprattutto, da parte degli adulti) e offriva la necessaria continuità all’esperienza di apprendimento in oggetto poiché i tempi e gli spazi dello stesso potevano essere considerati sufficientemente lunghi e ben circoscritti.
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La via era già decisa, ma non (necessariamente) da te
Con l’avvento della post-modernità tutto ciò subisce una drastica trasformazione. Per farla molto breve, noi sappiamo che la caduta delle grandi ideologie con il superamento della modernità ha generato, anche sul piano pedagogico-educativo, un nuovo modo di pensare e di agire. Questo vede nel concetto di limite (sia temporale che spaziale) qualcosa da superare per dare vita a nuove sperimentazioni e a nuove occasioni di conoscenza che vadano ben al di là dei confini che la modernità (da intendersi anche come approccio prevalentemente razionale alla realtà) ci ha consegnato. La post-modernità ha quindi ridefinito il significato sia ai tempi che agli spazi dell’educazione: i primi si sono drasticamente ridotti; i secondi si sono trasformati in qualcosa di indefinito. Infatti, se guardiamo a come il mondo oggi si presenta, scopriamo innanzitutto che tutto deve essere fatto in tempi sempre più brevi e che il concetto di luogo si presenta sempre più come qualcosa di globale, quindi anche di indistinto. È l’esperienza ciò che conta, indipendentemente dal tempo che essa necessita e dal luogo in cui essa prende forma. La pedagogia non è immune dagli effetti di questa trasformazione; lo si vede dall’innumerevole offerta educativa e formativa che contraddistingue la nostra quotidianità. I giovani (ma questo discorso vale anche per molti adulti) si ritrovano a dover reagire immediatamente agli stimoli che il mondo intero mette sotto i loro occhi. Le occasioni formative e di aggiornamento necessarie per non ritrovarsi fuori dai giochi non si contano più ma – e questo è ciò che più ci dovrebbe interessare – si susseguono l’una alle altre a ritmo sempre più accelerato e frenetico; lo stesso dicasi per quanto riguarda il concetto di spazio poiché i luoghi che fino a ieri erano preposti all’apprendimento e alla conoscenza si sono oggi distribuiti un po’ ovunque, sia nell’universo reale che in quello virtuale. A tutto ciò, oggi, sembra non ci si possa più sottrarre; pena: il perdere definitivamente il treno per il domani.
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Oggi come oggi, le tempistiche della formazione possono essere un’incognita
Se da una parte è doveroso riconoscere che i tempi postmoderni, con la loro esigenza di rottura dei limiti che la modernità portava con sé – anche in pedagogia –, hanno dato voce a esigenze fino ad allora sopite (legate ad esempio all’iniziativa individuale, all’ambizione personale, al bisogno di libertà e all’esercizio dell’intelligenza in generale), è altrettanto vero che con l’avvento di questo nuovo modo di pensare e di procedere sono venuti a mancare anche alcuni punti di riferimento importanti da cui l’agire pedagogico ricavava una parte non banale della sua efficacia. L’essere costretti, per i giovani, visti i tempi stretti, al qui e adesso; il dover reagire immediatamente a ogni sorta di stimolo credendo di non potervisi sottrarre, riduce non poco la loro capacità di sostare su quanto si è fatto e non lascia quasi più il tempo necessario per elaborare, per far propria, per lasciar sedimentare l’esperienza maturata che – così configurata – corre il forte rischio di scivolare via e di non generare gli effetti sperati sul piano della maturazione individuale (e collettiva). Lo stesso dicasi per la caduta di un insieme di sistemi di riferimento a cui guardare per acquisire esperienza e conoscenza. Il concetto di luogo ben definito o di margine spaziale dentro al quale potersi muovere portava con sé – con tutti i suoi limiti, per nulla banali – anche l’idea di superamento, cioè quell’andare oltre al limite stesso, a ragion veduta. La trasformazione del concetto di spazio educativo, il suo sciogliersi in luoghi globali o, addirittura, in non luoghi non ha quindi solo offerto nuovi ambiti nei quali esercitare la propria libertà, ma ha anche sottratto al giovane la possibilità di esercitarsi attorno al concetto di confine: non fosse altro, per l’appunto, per misurarsi con la necessità di doverlo superare.
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