Come riconoscere, accompagnare e valorizzare le persone con alto potenziale cognitivo spesso giudicate per le loro difficoltà

È sabato mattina. Lugano è silenziosa, si sveglia lentamente. Arrivo in studio per prepararmi e accoglierli. Chi? Due gruppi: uno di adolescenti, l’altro di giovani adulti. Hanno una caratteristica in comune: sono persone ad alto potenziale cognitivo. I partecipanti raccontano le loro storie, talvolta dolorose, altre volte tragicomiche a causa degli innumerevoli fraintendimenti.
Spesso sono stati presi in giro, spesso non sono stati capiti. Gli adulti leggevano solo la superficie e, accorati (alcuni), si lamentavano del loro comportamento: «Non sta fermo», «risponde male», «i suoi interventi sono inopportuni», «è fuori dal contesto». Ne conosciamo l’immagine cinematografica: come in Will Hunting, il giovane genio apparentemente irriverente viene spesso interpretato come “problematico” prima ancora che come persona complessa. Ecco la loro nomea. Altre volte, invece, venivano esaltati come prodigi: «A 3 anni già fa puzzle per bambini di 8 anni», «mia figlia di 2 anni conosce i colori e il nome di tantissimi animali».
Le vite di queste persone sono segnate da una valutazione cognitiva – più o meno lontana – che mette l’accento sul loro modo di funzionare: l’alto potenziale, una commistione di rapidità nell’apprendere e una spiccata capacità di ragionamento e memorizzazione. Gli anglosassoni li definiscono “gifted” (dotati – dall’inglese gift, che significa regalo), ma più mi sforzo e più nella mia testa riecheggiano le voci dei pazienti e il loro desiderio di normalità.
Genitori e docenti alcune volte ne hanno fatto un credo, investendo – a loro insaputa – i piccoli Einstein di grandi responsabilità. Se penso ai film Limitless con Bradley Cooper o a Lucy di Luc Besson, non nego di avere per un attimo fantasticato di sviluppare le mie capacità cognitive oltre il limite, potenziando la performance intellettuale al massimo. Ma a che costo? Sentire di più degli altri. Il loro apparato per sentire li rende ipersensibili, sia emotivamente che da un punto di vista sensoriale. Nelle situazioni di gruppo, per esempio, raccontano di provare una sorta di sovraccarico sensoriale e cognitivo che li investe, irritandoli e rendendoli fragili.
depositphotosQuando troppe aspettative provano a metterti in scaccoSono nella stanza di terapia, ascolto il paziente che ho di fronte e le strategie che lo hanno portato alla vittoria in una partita di scacchi qualche giorno prima. «Il mio avversario era più grande di me di quattro anni. Stavo usando il cavallo con la torre per bloccare il re: non aveva più possibilità. Ho provato a ostacolarlo ma è riuscito a farmi scacco matto». Si arrabbia, piange.
Sento l’ansia da prestazione che deve aver provato. Sono catturato dal racconto; la tensione evocativa della partita mi ha rapito, ma la pausa introdotta dal pianto mi riporta alla realtà. Mi ripeto come un mantra: «Ha solo 7 anni. Ha solo 7 anni» (io che mi ero proiettato alla storica partita tra lo statunitense Bobby Fischer e il sovietico Boris Spassky, messa in scena nel film La grande partita). Si alza e mi chiede: «Hai gli scacchi?». «Ho dei giochi, vediamo se c’è qualcosa che ti piace». Trova subito una palla di gommapiuma. Domanda: «Possiamo giocare a passaggi? Senza fare che uno vince e l’altro perde?».
Quando i giochi si fanno duri, in adolescenza, i vissuti di diversità e isolamento arrivano carichi della loro forza depressiva. Un modo competitivo, fatto di prove e valutazioni, li investe. Forse, come il bambino scacchista del racconto, vorrebbero solo giocare senza un esito finale. Ma la scuola e la società li confrontano con vissuti d’ansia sociale, elevando sentimenti di inadeguatezza e solitudine. Accompagnare in psicoterapia significa provare a tradurre il loro modo di essere e di stare nelle relazioni, aiutarli a vincere quella sorta di impaccio relazionale dovuto a una difficoltà nel leggere la sociopragmatica dell’ambiente. Cosa significa? Riflettere su come comprendere meglio le intenzioni altrui e interpretarne il linguaggio non verbale, sostenendoli nel capire l’ironia, nell’adattare il proprio linguaggio al contesto sociale e, per esempio, nell’intuire quando prendere il turno di parola.
E così, torno a quel sabato mattina: siamo al secondo incontro del gruppo degli adulti. Dopo un acceso dibattito che li ha spinti a definire un’identità, tramite il nome da assegnare alla chat condivisa, finalmente si arriva a una conclusione. Piomba nella stanza un silenzio quasi liturgico. Nel nome il destino – nomen omen, recitavano i latini. Prende quindi la parola, con tono solenne, la persona che amministra i dibattiti virtuali. Si schiarisce la voce, sembra pronunciare una frase semplice: «Giuriamo che siamo normali». Lo dichiara ridendo, svelando forse il desiderio che finalmente il mondo li guardi senza aspettative: che il loro quoziente non sia visto come un superpotere da impiegare a tutti i costi per avere successo (quanta influenza deve aver avuto il mondo fantastico dell’Uomo Ragno e il motto dello zio Ben: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”).
Rientro a casa con ancora nelle orecchie la dichiarazione del gruppo: «Giuriamo che siamo normali». Me la riascolto come se fosse una preghiera laica, un invito a spezzare lo sguardo che etichetta e isola. Penso a ognuno di loro – al bambino scacchista che chiede solo di giocare senza l’ansia dell’esito, all’adolescente che si chiude al mondo, al giovane adulto che teme di non essere capace di reggere le aspettative – e mi colpisce la stessa richiesta semplice e profonda: essere visti come persone, non come etichette.
Nel mio lavoro, queste richieste sono la quotidianità e non sono astratte: sono appuntamenti, nomi e volti che porto con me anche quando faccio la spesa a Lugano o al caffè al bar prima di una giornata intensa. L’alto potenziale non è una diagnosi: è una configurazione cognitiva che in certi contesti diventa una risorsa e in altri fonte di fragilità. I racconti in terapia mostrano come il sovraccarico sensoriale, la difficoltà nel leggere la sociopragmatica e le pressioni valutative possano tradursi in ansia e isolamento. D’altro canto, curiosità intensa e rapidità di apprendimento restano potenzialità che, se sostenute, potrebbero consentire anche delle realizzazioni.
Da questo doppio piano, umano e clinico, scaturiscono indicazioni pratiche. Valutazioni diagnostiche e dello sviluppo psico‑affettivo ben condotte sono cruciali: permettono di individuare eventuali disturbi (disturbi specifici dell’apprendimento, iperattività, disturbi dello spettro autistico) e di orientare interventi mirati. In terapia, l’obiettivo non è rendere “normativo” un modo di funzionare, ma fornire strumenti concreti per regolare emozioni, gestire il sovraccarico e migliorare le competenze sociali – abilità che si traducono in piccoli cambiamenti quotidiani, utili a scuola, nelle relazioni e nel lavoro.
Accanto all’intervento clinico servirebbero risposte educative e comunitarie: percorsi scolastici flessibili che riconoscano gli stili di apprendimento differenti; formazione per insegnanti e famiglie al fine di evitare sia la mitizzazione che l’esclusione; spazi extrascolastici non competitivi dove sperimentare senza avere paura del giudizio. Solo così l’etichetta potrebbe smettere di essere una gabbia e diventare una mappa che aiuti a progettare percorsi di vita.
Forse la psicoterapia non eliminerà del tutto la sensazione di diversità o il carico sensoriale in certe situazioni, ma può tessere una relazione di fiducia che renda la vita meno solitaria e meno in bilico tra aspettative e delusioni. La promessa del gruppo – riconoscersi, sostenersi e rivendicare una normalità che ammetta delle varianti – contiene forse una sfida pubblica: trasformare una rivendicazione personale in pratiche concrete che riducano l’isolamento.
La normalità, insomma, non è un solo metro: è dare a ciascuno la possibilità di abitare il proprio funzionamento con dignità. Vederli, ascoltarli e fornire risposte pratiche significa non solo aiutare chi ho davanti nella stanza di terapia, ma contribuire a costruire una comunità – qui, nel nostro Cantone – capace di riconoscere che la diversità cognitiva è una risorsa da accompagnare, non un destino da spiegare.
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