In Nba trionfano i Thunder trascinati da Gilgeous-Alexander, che eguaglia Kareem, Michael e Shaq. Onore comunque a Indiana, che ha sfiorato il colpaccio
Shai Gilgeous-Alexander sorride appena, Alex Caruso, invece, aizza i tifosi di casa alzando le braccia al cielo e urlando come un pazzo, Jalen Williams addirittura piange. Alle loro spalle si stanno giocando gli ultimi secondi di gara 7 delle Finali Nba tra gli Oklahoma City Thunder e gli Indiana Pacers, Bennedict Mathurin si è appena guadagnato un fallo e sta per tirare i due liberi, ma ormai non conta più niente, lo scarto tra le due squadre è troppo grande, il tempo rimasto troppo poco: i Thunder sono campioni Nba, e lo sono per la prima volta nella loro storia. 103-91 il punteggio a loro favore al suono dell’ultima sirena della stagione, per quel che contano i numeri in questo momento.
È stata una finale incredibile, per bellezza, intensità, colpi di scena, rimonte, difese, attacchi. La migliore degli ultimi anni, seppure ad affrontarsi siano state due squadre considerate minori, dove nello sport business-oriented americano per “minori” si intende come mercati con meno soldi. Oklahoma e Indianapolis sono città piccole, incapaci di attirare i migliori giocatori e le attenzioni mediatiche del resto del Paese, e anche per questo queste finali sono state tra le meno viste di sempre in televisione, tra quelle meno commentate dagli opinionisti sui media o dai tifosi sui social. Ma, davvero, non importa, perché, per fortuna, il gioco è ancora quello che si fa in campo, e il campo ci ha dato tutto quello che potevamo desiderare.
Thunder e Pacers si sono affrontate per sette gare, 336 minuti totali, quasi sempre in equilibrio, a darsi colpi su colpi, come se più che due squadre di basket fossero due pugili sul ring. Per decidere ci è voluta gara 7, quella del tutto e niente, del chi vince si prende tutto. La partita in cui, più che la tattica o la tecnica, a contare è la capacità di restare in piedi, di avere più energia, più volontà, più forza nelle gambe. E, purtroppo per gli Indiana Pacers, che sono indubbiamente la favola di questa stagione, che da sfavoriti hanno vinto serie dopo serie fino ad arrivare a una partita dal titolo, quando il basket diventa una questione di chi ne ha di più, nessuno batte gli Oklahoma City Thunder.
Se queste finali sono state stupende, per parlare di gara 7 bisogna partire da un brutto momento. È appena iniziato il settimo minuto del primo quarto e Haliburton, cercando di mettere palla a terra per battere il recupero di Gilgeous-Alexander, cade a terra da solo. La sua faccia è una maschera di dolore, batte i pugni a terra e piange disperato, costretto a lasciare il campo su una gamba sola (la diagnosi per lui sarà terribile: rottura del tendine d’Achille). Haliburton aveva iniziato alla grande, segnando 9 punti con tre triple a bersaglio, e l’aver perso il proprio miglior giocatore a inizio partita è stato uno shock per Indiana e, alla fine, la spiegazione più immediata per la sua sconfitta.
Eppure, in qualche modo, dimostrando come hanno fatto per tutta la stagione di avere un cuore enorme, i Pacers sono rimasti in partita senza subire il contraccolpo psicologico. Lo hanno fatto continuando a giocare il loro basket corale, fatto di altruismo e scelte giuste. Indiana corre quando deve correre, taglia quando deve tagliare, tira quando deve tirare. Il merito è di Rick Carlisle, uno che gira per le panchine Nba dal 1989, che ha già vinto un titolo, quello meraviglioso della Dallas di Dirk Nowitzki nel 2011, ma che forse non ha mai avuto il riconoscimento che merita. Per due quarti e mezzo i Pacers sono rimasti attaccati ai Thunder, punto a punto, trovando in McConnell, il più piccolo in campo, l’eroe che non ti aspetti, capace di segnare canestri impossibili e di tenere vivo l’attacco in assenza di Haliburton e con Siakam costantemente raddoppiato.
Poi, però, piano piano, possesso dopo possesso, Okc ha eroso tutte le energie nervose di Indiana. Come per tutta la stagione, il segreto è stata la difesa: la loro abilità nel mettere pressione agli avversari è ineguagliata e ineguagliabile. Pressione costante sulla palla, blitz sul palleggiatore, mani ovunque che sporcano ogni tentativo di passaggio, corpi che si buttano a terra, braccia lunghe che ti inseguono al ferro.
Avere a disposizione giocatori come Caruso, Dort e Wallace gli permette di difendere in maniera aggressiva, rischiando anche magari di regalare qualche canestro se sbagliano qualcosa; ma la regola è: meglio concedere un canestro facile subito e recuperare una palla, piuttosto che subire due tiri ben costruiti dall’attacco di Indiana. Il risultato sono state 21 palle perse da Indiana, o sarebbe meglio dire riconquistate da Okc, che hanno portato i Thunder a tirare in totale 17 volte in più degli avversari (87 tiri a 70). Una statistica che spiega abbastanza bene il risultato finale.
È indicativo che, a spaccare in due la partita e farla pendere verso Okc, siano state tre triple consecutive segnate nel terzo quarto da Gilgeous-Alexander, Holmgren e Williams, i tre migliori giocatori della squadra, i tre chiamati a prendersi le responsabilità maggiori in gara 7. Quei tre canestri sono valsi un parziale di 9-0 da cui Indiana non ha saputo riprendersi, scivolando rapidamente verso uno svantaggio di oltre 20 punti nel quarto quarto.
Gli ultimi minuti della partita sono serviti solo per rendere numericamente meno dolorosa la sconfitta, ma si era capito che una rimonta, questa volta, non sarebbe stata possibile. Troppo forti gli Oklahoma City Thunder, troppo stanchi gli Indiana Pacers per provarci davvero.
L’infortunio di Haliburton non toglie niente alla vittoria finale della franchigia dell’Oklahoma. Con un’età media di 25 anni e mezzo, sono la seconda squadra più giovane a vincere il titolo negli ultimi settant’anni. In una Nba che ha visto sette vincitori diversi negli ultimi sette anni, sembrava che l’era delle dinastie dominanti fosse finita.
E invece, dopo i Golden State Warriors, potrebbe essere iniziata la loro epoca: Sga, Holmgren e Williams hanno rispettivamente 26, 24 e 23 anni, e l’anno prossimo avranno ancora sotto contratto tutti i giocatori più importanti (e Topic al rientro dall’infortunio). Come se non bastasse, hanno 13 prime scelte da usare come merce di scambio per migliorare il livello del roster, se vorranno. Il modo in cui Sam Presti ha costruito questi Thunder è semplicemente eccezionale e, anzi, si può dire che forse hanno vinto troppo presto. Di solito, le squadre che ripartono da zero impiegano anni e anni per diventare una contender, soprattutto perché compiere l’ultimo passo è difficilissimo. I Thunder invece sono passati in due stagioni da essere una squadra di media classifica piena di giovani di belle speranze a vincere il primo titolo.
Questo vuol dire che, al netto di stravolgimenti – che in NBA sono sempre possibili – saranno ancora più forti e dominanti l’anno prossimo e chissà per quanto. Una possibilità che al resto della Lega fa paura: quest’anno Okc ha vinto la Western Conference con un margine di 16 vittorie sugli avversari, avuto il miglior differenziale di punti nella storia della Nba in regular season. Nei playoff hanno fatto qualche passo falso, sono ancora giovani, ma dopo ogni sconfitta si sono ripresi, fino ad arrivare a ottantaquattro vittorie totali (prima squadra dal 1997 a mettere insieme così tante vittorie e un titolo).
E poi hanno Shai Gilgeous-Alexander, che anche in gara 7 non ha mai smesso di attaccare e di fare la scelta giusta, fidandosi dei compagni di squadra quando era necessario farlo (12 assist e una sola palla persa) e mettendosi in proprio nei momenti più opportuni, al netto di qualche errore. Con questa vittoria, e il premio di Mvp delle Finali, si è unito a Kareem Abdul-Jabbar, Michael Jordan e Shaquille O’Neal come altro giocatore capace di vincere nella stessa stagione il titolo di miglior marcatore, di Mvp della stagione regolare e, appunto, delle Finali.
È stato lui, tenendo in mano il Larry O’Brien, il trofeo della vittoria, a mettere tutti in guardia: «Abbiamo sicuramente ancora margini di crescita, ed è questa la parte divertente. Questa vittoria è sicuramente un ottimo punto di partenza. Non avrei potuto immaginarla in modo migliore».
Se il presente e il futuro dei Thunder sono particolarmente luminosi, bisogna comunque rendere merito agli Indiana Pacers. Le immagini dal tunnel della Paycom Arena dopo la partita, con Haliburton che consola a uno a uno i compagni di squadra in lacrime reggendosi sulle stampelle, sono state commoventi. I loro playoff sono stati memorabili. In poche settimane hanno stravolto tutto quello che pensavamo di sapere: hanno rimontato cinque volte uno svantaggio di 15 o più punti, hanno vinto tre partite in cui erano sotto di almeno 7 punti a meno di un minuto dalla conclusione. Ci hanno fatto divertire. Haliburton ha segnato alcuni canestri impossibili sulla sirena, ma i suoi compagni non sono stati da meno e raramente si era visto un collettivo così unito, capace di giocare un basket corale così particolare e ben fatto.
I Pacers sono arrivati a una vittoria dal titolo, così vicini ai Thunder da poterli davvero spaventare, ma il loro futuro è in bilico. L’infortunio della loro stella è una mazzata particolarmente dura da assorbire: Haliburton salterà tutta la prossima stagione, e poi bisognerà vedere come potrà tornare da un infortunio così serio. Tra l’altro è l’ottavo giocatore a rompersi il tendine d’achille in questa stagione Nba, un problema, quello degli infortuni, che la Lega dovrà affrontare prima o poi. Indiana ha costruito tutto intorno a lui e ora ripartire sarà difficile. Bisognerà fare delle scelte dolorose a livello di roster, e questa potrebbe essere stata la loro unica occasione per vincere il titolo, almeno per qualche anno.
Per quanto il finale possa lasciare l’amaro in bocca, la loro cavalcata resterà nella storia della Nba. È questo il regalo che ci lasciano queste Finali: da un lato, una squadra giovane e travolgente pronta a dominare per anni; dall’altro, una sconfitta che ha saputo farsi amare da tutti, suggerendoci che, nonostante questi tempi sembrino dire il contrario, anche chi non vince merita di essere ricordato.