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Charles Leclerc, il perdente di successo

Nonostante la stima di Verstappen, il monegasco continua a polarizzare i tifosi. E, dopo sette anni, potrebbe (o dovrebbe) divorziare da Maranello

(Keystone)

Attualmente, nessun pilota polarizza di più tifosi e appassionati di Charles Leclerc. A prima vista potrebbe risultare strano, visto lo stile educato, l’approccio deciso però mai scorretto in gara, la tendenza a evitare la polemica e a non esporsi su temi ‘politici’ legati al motorsport, come invece fatto da stelle quali Lewis Hamilton e Max Verstappen. Uno sportivo con le potenzialità per piacere a tutti, sviluppate in maniera genuina, non costruite a tavolino per ragioni di calcolo. Proprio Verstappen è stato tra gli ultimi di una oramai lunga serie di addetti ai lavori ad aver dedicato parole dolci a Leclerc, definendolo “il migliore in qualifica, un grande a livello di velocità pura e anche molto bravo ad attaccare”. Un grandissimo attestato di stima, non richiesto e pertanto ancora più prezioso. Il problema di Leclerc, da cui scaturisce la menzionata polarizzazione, è duplice: il suo status di re senza corona e la narrazione attorno alla sua figura. Niente di tutto questo è a lui imputabile, ma continua a rappresentare una zavorra – specialmente il primo punto – che appesantisce e distorce la valutazione, soprattutto quella del pubblico. Per alcuni è un campione che può essere definito tale anche prescindendo dalla mancanza di successi; per altri rimane un talento incompiuto. La soluzione di questo autentico enigma potrebbe essere racchiusa in una parola: divorzio. Dopo sette anni di Ferrari, Leclerc potrebbe, e forse dovrebbe, rompere un matrimonio che lo sta costringendo in una comfort zone di lusso, appagante a livello empatico e relazionale, ma che sportivamente lo sta trasformando in un perdente di successo. Sul Corriere della Sera, Giorgio Terruzzi ha parlato della necessità di un rilancio emotivo per questo pilota le cui parole, “pur trattenute, mostrano un ragazzo che non ce la fa ad accettare una rassegnazione, mentre le espressioni, la postura, il tono della voce, svelano un ragazzo arreso di fronte a un presente smorto, a un futuro scarico di opportunità, ormai provato da una lunga storia d’amore che non funziona, non produce gioia, allegria”. Per usare un termine molto amato dal suo attuale team principal Frédéric Vasseur riguardo a una macchina, la Sf-25, che non passerà certo alla storia, quanto potenziale si può estrarre dal talento di Charles Leclerc?

Un circolo vizioso senza fine

Con tutta probabilità, la risposta la conosce solo il diretto interessato, che però non può mostrarla, frenato da stagioni in cui le cose non sono mai girate pienamente per il verso giusto, a causa di difetti di progettazione, falle nella strategia, sfortune varie ed eventuali, e pure qualche errore personale, commesso come capita a qualsiasi pilota. Nel loro libro ‘La Formula’ Joshua Robinson e Jonathan Clegg, giornalisti del New York Times, scrivono che la Ferrari è una scuderia che “possiede un’enorme considerazione di sé stessa, a prescindere dai risultati sportivi”. Si può solo provare a immaginare cosa significhi essere uno dei rarissimi piloti dell’Academy del Cavallino non solo ad aver ottenuto un sedile sulla monoposto rossa, ma anche a esserne diventato il pilota di punta. I legami empatici che si formano e si strutturano con questo universo sono infiniti. Proprio da qui ha origine il circolo vizioso nel quale si trova intrappolato Leclerc, cresciuto tantissimo nel suo settennato a Maranello, tanto da diventare un faro indiscutibile della Ferrari in pista, accendendo bagliori intermittenti ma di luce intensissima (su tutti Belgio 2019, Monaco 2024 e Monza 2024, ma anche il sorpasso su George Russell nell’ultimo Gp olandese, ai confini della regolarità per le capillari e soffocanti regole attuali, ma esaltante sotto il puro profilo della guida), senza venire minimamente scalfito dall’arrivo di un compagno mediaticamente e sportivamente ingombrante come Hamilton. Nelle ultime stagioni però è aumentata anche la frustrazione, alimentata dalla permanente sensazione che il suo meglio non sia mai abbastanza, che c’è sempre qualcun altro – si chiami Mercedes, Red Bull o McLaren – capace di spostare i limiti un po’ più in là, dove la Ferrari non riesce ad arrivare. Ecco, quindi, un legame empatico che si trasforma in una trappola, quando ai microfoni di Sky Sport Italia Leclerc dichiara che correre per la Ferrari “vale di più” che lottare per il titolo mondiale come stanno facendo Lando Norris e Oscar Piastri. Nessun dubbio sulla sincerità con cui la frase è stata pronunciata, ma di certo parole del genere non uscirebbero mai dalla bocca di un Verstappen. Davvero per un pilota top, di altissimo livello, l’appartenenza conta più del successo?

Numeri da sopravvalutato per i detrattori

A quasi 28 anni, Leclerc si è conquistato in pista il diritto di chiedere e pretendere di più. Cercandolo anche altrove, se necessario, senza ricatti emotivi, trattato come, riprendendo ancora Terruzzi, “un amico che, magari, potrebbe stare meglio affrontando un divorzio doloroso”. Del resto, a essere dolorosi sono i suoi numeri, impietosi come solo le fredde statistiche sanno esserlo: 163 Gran premi (inclusi quelli del 2018 con l’Alfa Romeo Sauber diretta proprio da Vasseur) e 8 vittorie, più 27 pole position convertite solo in 5 occasioni in un primo posto finale. Quest’ultimo dato significa una percentuale di conversione pari al 18,52%, quando nella storia della F1 ci si attesta sul 43,2%, che sale a 50,3% se si considerano solo le gare dal 2018, quando Leclerc ha fatto il suo debutto nella massima categoria. Numeri da sopravvalutato per i detrattori, per i quali c’è sempre una scusa pronta nei confronti di un pilota a cui i tifosi perdonano tutto a prescindere; numeri da campione per i sostenitori, in quanto certificano la capacità del pilota di estrarre tutto il possibile dalla propria monoposto sul giro secco, prima di soccombere alle di lei lacune in gara. Approfondendo i motivi delle mancate vittorie partendo dalla prima piazzola, in quattro casi si è trattato di problemi meccanici, in cinque di errori di strategia del muretto o di rimescolamenti da safety car, in due per errore del pilota e nei rimanenti undici per mere ragioni di gara, ovvero semplicemente superato dagli avversari. Riguardo alle vittorie, sono tutte state raccolte in tre stagioni: 3 nel 2024 (Monaco, Monza, Austin), quando nella seconda parte della stagione la Ferrari aveva trovato la quadra arrivando a giocarsi il titolo Costruttori contro la McLaren all’ultima gara; 3 nel 2022 (Bahrain, Australia, Austria), l’anno dell’illusione dopo un inizio sprint (+44 su Verstappen al terzo Gp), poi naufragato dopo una decina di gare tra errori strategici, cali prestazionali e consolidamento di una Red Bull imbattibile; 2 nel 2019 (Spa, Monza), con il primo successo arrivato nel weekend della morte di Anthoine Hubert in F2, suo amico fin dai tempi dei kart quando i due, assieme a Pierre Gasly, condividevano chilometri e sogni sul kartodromo di Brignoles, fra Marsiglia e Nizza, di proprietà del padre di Jules Bianchi, il ‘fratello maggiore’ di Leclerc che tanto si era speso per aiutarlo nella sua crescita professionale. Bianchi è stato l’ultimo pilota a morire in una gara di F1, mentre Hubert l’ultima vittima nel motorsport a quattro ruote. Due lutti (tre, se si aggiunge la scomparsa del padre, ex pilota di F3, poco prima che Charles firmasse per la Ferrari) che hanno ammantato con un tocco di umanità e sensibilità la parabola di Leclerc in un mondo il più delle volte asettico e robotico. Come, appunto, i numeri che lo caratterizzano, capaci di raccontare una porzione anche ampia di realtà, ma non la sua interezza.

Una narrazione sensazionalistica, che travolge chiunque

Leclerc è anche vittima, suo malgrado, di una certa narrazione sensazionalistica che in Italia travolge tutto e tutti quando si parla di Ferrari. È stato soprannominato ‘il predestinato’, nickname che sembra rappresentare più una sentenza che un augurio, dal momento che anche in altri ambiti sportivi (ad esempio il calcio, si veda l’Andrea Pirlo allenatore) non ha portato molta fortuna al diretto interessato. I toni trionfalistici, esasperati e acritici nonostante un digiuno da titolo pilota che dura da 18 anni, sono una costante che non accenna a diminuire, facendo perno sulla passione genuina, profonda e inscalfibile del popolo ferrarista. Stefano Tamburini, giornalista di Autosprint dalla penna affilata, ha parlato di “un’insana e consapevole narrazione tossica, dove (a Monza, ndr) si è arrivati a far parlare Vasseur dell’osso buco che gli cucinava la nonna pur di non farlo entrare nei meandri dei propri disastri”. Facile che la percezione esterna di un pilota possa risultare alterata in questo blob nel quale le devastanti illusioni della vigilia, fomentate con toni da disc jockey, si fondono con singolari omissioni a livello comunicativo (ad esempio il pasticcio dell’Hungaroring, con la gara rovinata a Leclerc dopo due stint in testa, e versioni contrastanti tra piloti e team a fine corsa) e con un’attitudine minimizzatrice (dei propri errori, perché la colpa è sempre di qualcun altro, piloti in primis), il tutto con il collante di un appoggio mediatico incondizionato. Leclerc non ha bisogno di alibi, né li cerca, ma non merita nemmeno di finire asfissiato in una prigione dorata. Alla fine, il succo di questi suoi circa 2’500 giorni al volante della monoposto di Maranello può essere sintetizzato in un’unica domanda: cosa può fare ancora per dimostrare il suo valore assoluto?