La rincorsa dello spagnolo alla prima posizione della classifica mondiale è passata anche da un attento studio delle caratteristiche dell’italiano
Al torneo di Roma una folla festante accoglieva il ritorno in campo di Jannik Sinner. Nell’aria si respirava un misto di ansia ed eccitazione. Sarebbe stato lo stesso di prima, o la pausa di tre mesi per la vicenda Clostebol lo avrà segnato? C’era, però, una certezza: Jannik Sinner era il miglior giocatore al mondo. In quei tre mesi di pausa i due giocatori che avrebbero potuto assaltare la sua prima posizione del ranking, cioè Alexander Zverev e Carlos Alcaraz, non si erano rivelati all’altezza del compito. Per Alcaraz l’assenza di Sinner non era stata un fattore di motivazione, al contrario: aveva finito per destabilizzarlo. Aveva perso da avversari alla sua portata come Draper o Goffin e aveva vinto un solo titolo, nello sguarnito torneo di Rotterdam. A Roma arrivava con qualche segnale di ripresa ma ancora portandosi dietro qualche dubbio – due settimane prima aveva perso in finale a Barcellona da Holger Rune.
In quel torneo di Roma, però, che segna il ritorno in campo di Sinner, inizia la rincorsa di Alcaraz alla prima posizione mondiale. Un inseguimento concluso nella finale di domenica sera, dove lo spagnolo ha raccolto tutto quello che c’era sul piatto: la trilogia 2025 di finali Slam contro Sinner, gli US Open e il primo posto della classifica mondiale. Lo ha fatto con una prestazione formidabile in finale: una partita di quasi solo vincenti e con un rendimento al servizio da alieno. A differenza delle finali europee, questa a New York è stata meno bella e spettacolare. I set sono stati a senso unico e, tolta una reazione d’orgoglio di Sinner nel secondo parziale, un assolo di Alcaraz, un’esibizione del suo talento complesso, barocco, ma che negli ultimi tempi ha assunto una temibile consistenza.
Un dato lo racconta più di tutti: Alcaraz ha vinto gli Us Open avendo concesso appena 10 palle break. Nessuno ne aveva concesse meno in uno Slam (il secondo è Sampras, US Open 1996, con 13). Un dato che racconta – oltre ai problemi di competitività del circuito – i suoi incredibili miglioramenti al servizio, devastante con la prima palla, e solidissima con la seconda, che è oggi indubbiamente la migliore del circuito. A questi miglioramenti al servizio si sono aggiunti quelli col rovescio. Se quella era la diagonale più dolorosa per lui, nel confronto con Sinner, nella finale non ha dato alcun segno di cedimento, e anzi è stato spesso lui a muovere e a rilanciare il gioco da quel lato, con back perfidi che non si alzavano da terra, palle cariche d’effetto che toglievano ritmo, oppure con sorprendenti accelerazioni lungolinea che non gli avevamo visto fare.
Queste nuove armi hanno destabilizzato un Sinner già appannato di suo. Gli hanno sottratto i cardini tattici preferiti. L’italiano ha servito molto male per tutto il torneo, e se le sue percentuali basse di prime palle erano sufficienti con gli altri, contro Alcaraz gli hanno fatto perdere il controllo dello scambio. Un suo calo si era registrato già nella semifinale contro Felix Auger-Aliassime. Sinner aveva servito male, pagando anche un piccolo problema agli addominali, ed era sembrato più incerto e più scarico del solito. Incapace di montare la classica cappa di ritmo infernale nel suo tennis da fondo campo. Questa nuova versione di Alcaraz, poco dispersivo, concentrato, straordinariamente regolare, è stata affilata dalla sua rincorsa al primo posto in classifica. È stato quell’obiettivo a creare la motivazione per sistemare alcuni problemi tecnici e di gestione, a rendere così concentrato un tennista che era noto invece per i suoi generosi cali di tensione. «È difficile non pensarci ma devo rimanere concentrato», ha detto a un certo punto durante il torneo, parlando della rincorsa al numero 1 in classifica. Ha perso un solo set, ha perso solo due volte il servizio, ha giocato un tennis che è riuscito finalmente a trovare un equilibrio perfetto tra estro e solidità.
Abbiamo visto i soliti colpi da highlights, ma anche game giocati con equilibrio e costanza, e soprattutto una gestione del punteggio più attenta. Alcaraz è riuscito a costruirsi un margine di vantaggio spesso all’inizio della partita o dei singoli set, facendo subito un break iniziale; un cuscinetto che gli ha dato tranquillità mentale e la possibilità di sperimentare un po’ col suo gioco, assorbendo anche eventuali cali di tensione. Dopo la partita un Sinner piuttosto rilassato ha dichiarato di dover diventare meno prevedibile se vuole battere Alcaraz. Sperimentare magari qualche tattica diversa, lungo i tornei; un po’ di serve&volley, qualche variazione, servizi giocati in modo diverso. Anche a costo di perdere qualche partita in più, nel percorso, evolversi. Migliorarsi del resto ha sempre un prezzo.
Sinner quindi vuole cambiare assomigliando un po’ di più ad Alcaraz, come Alcaraz è evoluto assomigliando di più a Sinner, che gli ha insegnato l’arte della solidità. Come tutte le migliori rivalità del tennis, quella tra Sinner e Alcaraz è emozionante perché ci ricorda che il tennis è una relazione e nell’altro non si trova solo un nemico ma anche un alleato: qualcuno che ci può migliorare. Alcaraz diventa così meritatamente il nuovo numero 1 del mondo, a coronamento di un periodo eccezionale: da Roma in avanti ha giocato 38 partite, ne ha persa solo una, la finale di Wimbledon contro Sinner. Il tennis, oggi, è un affare a due.
Perché, se Sinner e Alcaraz si migliorano a vicenda, gli altri non riescono a imparare niente da loro, per metterli in difficoltà? Il torneo ha certificato l’implosione della generazione dei nati negli anni 90. Medvedev è stato l’ultimo a vincere gli US Open che non appartiene ai vecchi Big-3 o ai nuovi Big-2. In questo torneo il suo esaurimento tecnico e nervoso ha toccato un nuovo picco, nella sconfitta con Bonzi in cui ha perso la testa. Il finale teatrale, in cui ha distrutto la racchetta, gli è costato anche una multa salata. Al termine del torneo si è separato col suo storico coach, Gilles Cervara, e sembra deciso a cominciare una nuova fase; non sarà semplice.
Zverev, numero tre del mondo, ha perso contro Felix Auger-Aliassime, che possiamo considerare una delle poche buone notizie arrivate dal torneo maschile. Il canadese nel 2022 è stato numero 6 del mondo, aveva 22 anni ed era considerato il futuro del tennis; ha finito per perdersi, a causa di problemi di gestione, che gli hanno destabilizzato la testa, e di problemi fisici, che ne hanno destabilizzato il corpo. Ha giocato un torneo fantastico in cui il suo tennis, fondato sullo schema servizio e dritto, pare aver trovato una nuova aggressività. Ha giocato grandi partite contro Zverev e Rublev, bombardando il campo di vincenti di dritto e grandi servizi; poi l’ha spuntata in un quarto di finale pieno di tensione contro un eterno piazzato come Alex De Minaur.
In semifinale, poi, ha messo in difficoltà Sinner servendo alla grande e togliendogli spesso il controllo del gioco. Continuano ad aleggiare dei grandi “se” attorno a lui: riuscirà a consolidare questi progressi? Ad avere continuità in un’intera stagione? A restare al riparo da problemi fisici? “Il tempo ce lo dirà”, ha detto Auger-Aliassime in conferenza. Dopo questo torneo, però, diventa uno dei candidati a una top-5 o top-10 maschile che oggi resta piuttosto traballante. Bisogna segnalare anche la grande storia del qualificato svizzero Leandro Riedi, che è riuscito a superare due turni, battendo in rimonta la testa di serie Francisco Cerundolo. Riedi è riuscito, solo in questo torneo, a raddoppiare il montepremi vinto in carriera. Speriamo investa bene i suoi soldi.
Forse penserete a un esito prevedibile, nella vittoria della campionessa in carica degli US Open – e numero 1 del mondo – Aryna Sabalenka. Ci sono però almeno due grandi motivi per non dare troppo per scontato il suo successo. La prima è che da quando era diventata numero 1, Sabalenka non aveva ancora vinto uno Slam. Nel 2025 ha collezionato due finali e una semifinale, e aveva sempre perso da giocatrici statunitensi. La seconda è che in finale trovava appunto un’altra statunitense, Amanda Anisimova, che per di più stava giocando un tennis incredibile. Se avessimo dovuto indicare una favorita, prima della finale, c’erano abbastanza argomenti per considerare Anisimova come tale. Semplicemente, aveva mostrato un livello di tennis più alto, e aveva vinto il loro ultimo confronto, a Wimbledon.
A luglio Anisimova aveva perso una finale di Wimbledon terrificante contro Iga Swiatek: 6-0; 6-0; il punteggio più netto di una finale Slam dal 1988. Dopo quella partita era scoppiata in lacrime ma aveva nobilitato la sua sconfitta con un discorso bello e ricco di emozioni. Il tennis ci ha ricordato che in nemmeno due mesi tante cose possono cambiare, e come Alcaraz si è preso la sua rivincita su Sinner, Anisimova se l’è presa su Swiatek, battendola ai quarti di finale. Una partita in cui ha giocato un tennis quasi impossibile: con tantissimi rischi, vincenti e un rovescio che – secondo Espn – andava più veloce di quello di Sinner e Alcaraz. In semifinale si è ripetuta contro Naomi Osaka, altra grande storia del torneo e potenziale vincitrice. La giapponese, già campionessa due volte a New York, aveva l’impressionante score di 14-0 dai quarti Slam in avanti. Anisimova l’ha sconfitta in un’altra splendida partita, in cui le due giocatrici hanno sbagliato poco pur giocando un tennis ad altissimo rischio. Sabalenka invece aveva avuto un cammino solido ma meno appariscente. In semifinale aveva battuto Jessica Pegula, nella riedizione della finale 2024. Eppure aveva sofferto, giocando una partita attenta ma non particolarmente ispirata. Per il resto aveva incontrato pochi ostacoli, approfittando anche del ritiro ai quarti della rediviva Marketa Vondrousova (ex campionessa a Wimbledon, tormentata dai problemi fisici).
La finale tra Sabalenka e Anisimova era quella tra due giocatrici allo specchio: due colpitrici da fondo potenti, cliniche, fenomenali. Sabalenka soprattutto col dritto, Anisimova soprattutto col rovescio. A Sabalenka non piace quando qualcuna riesce a tirare forte quanto lei, o persino più di lei, e Anisimova lo fa. L’americana ha scelto una strategia all-in: cercando il vincente quasi su ogni colpo tirato. Una strategia intransigente che ha prodotto grandi saliscendi nel punteggio, mentre Sabalenka provava a restare più concentrata e più ordinata della sua avversaria. Ha resistito alle grandi fiammate di Anisimova, e ha poi trovato l’energia per fare lei il punto quando necessario. È stata una grande prova di esperienza e consapevolezza: qualità nuove per una giocatrice che era spesso andata in pezzi di fronte alla pressione di giocare finali da favorita e numero 1 al mondo.
Durante la cerimonia di premiazione Sabalenka ha guardato Anisimova, ancora singhiozzante di pianto, e le ha detto: «Lo so quanto fa male perdere nelle finali. Ma nel momento che vincerai, lo capirai. Vincerai, giochi un tennis incredibile. È stata dura quest’anno. In quelle finali ero veramente terribile, ma ne è valsa la pena, no? Grazie a tutti».