Disavventure latine

Disavventure latine. San Paolo val bene una pizza

Con quasi 23 milioni di abitanti, la megalopoli, fra le più popolose al mondo, è il centro finanziario del Brasile. È brulicante e viva, anche in cucina

San Paolo, una minima parte, vista dall’alto
(© Keystone)
2 novembre 2025
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Pubblichiamo un contributo apparso su ticino7, allegato a laRegione

Ho sempre tifato contro il Brasile del “joga bonito”, che i miei amici adoravano, che tutti adorano, preferendo la classe più spigolosa di argentini e uruguaiani. Sentivo continuamente storie di turisti rapinati e malmenati a Rio. E c’era un chiassoso amico di famiglia con delle compilation insensate in cui musica cialtronesca come la Lambada si mischiava ai capolavori della bossanova, confondendomi e facendomi odiare tutto, senza distinzioni. Il portoghese dei brasiliani, poi, è quasi incomprensibile per via dei loro birignao. Insomma, io il Brasile ce l’avevo qui. Poi, per caso, dentro una libreria, ho ascoltato “Para Machucar meu coração” di João Gilberto. Me ne sono innamorato. Sono partito da lì e ho capito che dovevo vederlo con i miei occhi, il Brasile. Ci sono andato. Avevo torto. Ve lo racconto qui.

© R. Scarcella

Prendi dieci brasiliani a caso e racconta loro che stai andando a visitare San Paolo. Nove su dieci ti guarderanno con un’aria a metà tra il disgusto e la compassione, come se avessi appena detto che stai andando a fare una colonscopia. San Paolo, infinita, grigia, piovosa, operosa e disfunzionale, non è per tutti, eppure sembrano essere tutti lì a prendersi un pezzo di qualcosa che nessuno sembra volere davvero. Con quasi 23 milioni di abitanti è l’area metropolitana più grande di tutto il continente americano, la sesta più popolosa al mondo. Da sola produce circa il 12% del Pil brasiliano ed è la città più ricca di tutto l’emisfero australe, nonché quella con più elicotteri privati pro capite, che i ricchi usano per evitare il traffico infernale, aggettivo che in questo caso non pare nemmeno così iperbolico, visto che proprio a San Paolo si è verificato, nel 2008, l’ingorgo più grande di sempre: 292 chilometri. Qualcosa che suona anche peggio di un girone dantesco.

© R. Scarcella

Per aspera ad astra

Sebbene fare certi calcoli sia sempre complicato, perché la povertà oltre una certa soglia non è nemmeno più rilevabile, San Paolo è – insieme a Caracas – anche il luogo con la maggior disparità tra poveri e ricchi. Una persona su cinque, di fatto, sopravvive: non ha di che mangiare. Eppure San Paolo è anche la città del Sudamerica con più stelle Michelin: per la maggior parte ristoranti giapponesi (nel quartiere di Liberdade vive la più grande comunità giapponese fuori dal Giappone, quasi due milioni di persone). Ma tra gli stellati ci sono anche ristoranti francesi, fusion, contemporanei (qualsiasi cosa significhi), brasiliani – ovviamente – e italiani. Sono 5 milioni gli abitanti di San Paolo di origini italiane: ciò significa che oggi scorre più sangue italiano per la metropoli brasiliana che a Roma, Milano e Napoli messe insieme.

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Anche una delle tre squadre di calcio più importanti della città, il Palmeiras, fu fondato da italiani, nel 1914. Il primo nome della squadra – nonché del vecchio stadio e della via che ospita il nuovo – è Palestra Itália. Il nome venne cambiato – per motivi di opportunità – nel 1942, quando il Brasile decise di entrare in guerra al fianco degli Alleati e quindi contro l’Asse formato da Germania, Giappone e – appunto – Italia. Il legame resta comunque forte, con maglie e sciarpe tricolori, borse, gagliardetti e cravatte con il vecchio stemma e la vecchia denominazione e gadget in italiano maccheronico (esempio, la targa nonsense con su scritto: “Scoppia che la vittoria è nostra. Campeonissimo”). Questa cosa di prendere i nomi dal vocabolario degli antenati e storpiarli, per ignoranza o per gioco, sembra un’usanza irrinunciabile: e così si passa da locali chiamati “Stuppendo” o “Tutto mangiato” ad altri come “Bella Jau”.

© R. Scarcella

Paninologia

A San Paolo ci sono seimila pizzerie. Alle migliori, la Lonely Planet dedica due pagine intere, dicendo chiaro e tondo: “Dovete assolutamente andarci”. Ma anche chi prima prova a convincerti a non metterci proprio piede a San Paolo, quando capisce che ci andrai davvero, ti raccomanda almeno una cosa: vai a mangiare la pizza. Da italiano che evita accuratamente i ristoranti italiani all’estero (di solito frequentati da expat nostalgici e italiani in vacanza che entrano solo per lamentarsi di come è scotta la pasta o annacquato il caffè), per due giorni ho fatto il giro largo, tenendomi lontano sia dalle pizzerie che dai ristoranti Michelin o aspiranti tali, dedicandomi a un’altra delle grandi eredità italiane ormai brasilianizzate: i sanduiche, ovvero panini che paiono scoppiarti in mano da un momento all’altro da quanto sono pieni. I più famosi sono quelli del Mercato municipale, in particolare quelli con la mortadella del Bar do Mané (che è lì dal 1933) e dell’Hocca Bar, che ha la particolarità di infilare nel pane almeno 350 grammi di prodotto, più tutto quello che uno ci vuole insieme o intorno. I puristi aggiungono solo il formaggio. E l’immancabile birra gelata.

© Estadão

Il mio bar preferito però è all’angolo di una strada a più corsie dove in pochi minuti puoi vedere passare tutta la varia umanità che popola San Paolo, da quelli con l’elicottero a quelli con niente. Si chiama Estadão, ed è la versione brasiliana di uno di quei bar dove Jim Jarmusch metterebbe i personaggi strampalati di un suo film: è aperto 24 ore su 24, ha visto e vede ancora passare di tutto e non ti fa domande, basta che mangi, bevi e paghi. La specialità è il sanduiche con pernil (carne di maiale arrosto). Quando finisci, giuri a te stesso che non mangerai per giorni. Ma dura poco, di solito fino al prossimo panino.

© R. Scarcella

La quinta migliore al mondo

La penultima sera, mentre mi trovavo nel quartiere colorato di Vila Madalena, ho ceduto. Bráz, una delle pizzerie segnalate praticamente ovunque e da chiunque, era a una decina di minuti a piedi dal mio hotel. Non avevo più scuse. Quando sono entrato – e ho visto i fiaschi di Chianti e quell’atmosfera da Italia ricostruita da qualcuno che l’ha più sentita raccontare che vista – ho pensato di aver fatto un errore a rinunciare a un’ultima feijoada o a un churrasco. Ma c’era qualcosa nell’aria che faceva ben sperare. Da Bráz ho mangiato una delle pizze più buone della mia vita, di sicuro la migliore di cui le mie papille gustative abbiano memoria (e sono stato anche a Napoli, dopo).

© Bráz

L’ultima sera a San Paolo, dopo aver cercato invano un biglietto per il concerto di Taylor Swift all’Allianz Parque – lo stadio un tempo conosciuto come Palestra Itália – con lo stomaco gorgogliante ho contravvenuto a un’altra regola di viaggio: mai due volte di fila nello stesso ristorante (ce ne sono tanti da provare e la seconda esperienza rischia di essere sempre deludente). E così sono tornato. Era ancora meravigliosamente buona. Forse pure di più. Mentre mi gustavo l’ultima fetta guardavo la targa sul muro con la scritta: “Quinta pizza migliore al mondo”. Chissà le quattro che le sono arrivate davanti. Forse è arrivato il momento di cercarle. Difficilmente saranno più lontane.

© R. Scarcella