Terza e ultima puntata dei reportage dall'Indocina di Luisa Ravasi; partita alla ricerca di tradizioni, tecniche, identità e storie

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Ci sono tradizioni che sopravvivono inosservate. Altre, invece, esplodono sotto i riflettori e diventano leggenda. Nel Nord delle Filippine ho incontrato entrambe. Una donna che lotta nell’ombra per ridare voce ai suoi antenati. Un’altra che, senza cercarlo, è diventata simbolo globale di resistenza e memoria, una leggenda vivente. Due tatuaggi. Due storie. E una domanda che ancora mi porto addosso: come fa il tatuaggio a diventare una missione?
Sono arrivata a Baguio stanca. Sei mesi di viaggio nelle ossa. Mi trascinavo dietro i giorni intensi del Borneo: la foresta umida ancora sotto le suole. Baguio, però, è stato un sollievo. Un altopiano che respira: pini, aria sottile e uno sguardo gentile che mi accoglie sulla soglia.
© Luisa RavasiAte, al secolo Wilma GaspiliWilma Gaspili, conosciuta come Ate Wamz, è minuta, i capelli raccolti con cura. Mi accompagna a casa dei suoi genitori, dove dormirò in una piccola stanza appena costruita. È nata e cresciuta qua, nel cuore della Cordillera. Non è erede diretta del tatuaggio: negli anni della sua giovinezza la pratica era quasi scomparsa. Eppure qui per secoli i tatuaggi sono stati un linguaggio della pelle. Ogni tribù con motivi propri, legati alla terra, agli spiriti, al ciclo delle stagioni. Poi, dagli anni Sessanta, nuove religioni e la modernizzazione hanno spinto quei segni fuori dai corpi e dalla memoria.
Un giorno Ate sente parlare di una donna anziana a sei ore di strada, in una regione chiamata Kalinga: Apo Whang-Od, ultima mambabatok, ovvero l’ultima tatuatrice tradizionale delle Filippine. Da quella scoperta le nasce una domanda: “E noi? Abbiamo anche noi dei tatuaggi?”. Comincia a cercare intorno a sé. Scopre che la sorella di sua nonna aveva le braccia tatuate. Così inizia il suo viaggio. Villaggio dopo villaggio, taccuino e macchina fotografica, seduta ad ascoltare gli anziani. I motivi ricorrono: fasci di riso, felci, pelle di serpente, soli. Non solo del Kalinga: un patrimonio condiviso in diverse regioni. Dopo due anni accade l’imprevisto: la gente chiede a lei dei tatuaggi. Ate esita “non sono una tatuatrice” e indirizza tutti a Buscalan, il villaggio di Whang-Od. Ma insistono: “Tu sei della nostra comunità, ci rappresenti”. Così, con due bastoncini e una spina di calamansi, Ate comincia a tatuare.
Arrivano anche le critiche: “Non sei del Kalinga. Ti stai appropriando di ciò che non è tuo”. Le accuse arrivano dal villaggio della famosa Apo Whang-Od. Ate vacilla, ma non si ferma. “Se credi nella tua missione devi continuare anche quando arrivano gli ostacoli”, mi dirà durante una delle nostre conversazioni.
Il momento decisivo arriva sul Monte Pulag, montagna sacra. Ate vi sale con il peso delle accuse addosso. Accanto a lei giace Apo Anno, una mummia tatuata di oltre sette secoli ritrovata non molto distante. Suo antenato. Seduta al suo fianco, mentre inizia a tatuare, il corpo antico si sposta e le cade addosso. “Era un abbraccio, una benedizione”. Per Ate è il segno: il passato non la respinge, la legittima. Da quel giorno sente di aver ricevuto un mandato dai suoi antenati: portare avanti, con le sue mani, una memoria che rischiava di spegnersi.
© Luisa RavasiAte prepara lo strumento per tatuare con le spine di calamansiÈ ora il mio turno. Nel suo piccolo studio che è anche pasticceria e spazio culturale mi ritrovo su un divano di legno. Odore di caffè e torta di fragole nell’aria. La nipotina corre tra le gambe della nonna, mentre Ate prepara l’inchiostro: carbone e acqua del Monte Pulag. Inserisce una spina di calamansi nel legno e la fissa con un’altra più fine; poi intinge sottili fili d’erba secca nell’inchiostro e traccia il disegno.
© Luisa RavasiIl tatuaggio ricevuto da Ate Wamz che rappresenta il Monte sacro Pulag e la LunaMi stendo. Il tatuaggio è minuscolo, il dolore inatteso e feroce. La spina affonda sempre nello stesso punto. Sulla pelle imprime la sua firma: due linee spezzate che si innalzano l’una sull’altra, il Monte Pulag. Accanto, un puntino: la luna. Capisco che per Ate il tatuaggio è un filo che ricuce una memoria spezzata. Un atto politico e spirituale insieme. Con quel piccolo simbolo mi affida una parte della sua battaglia: ricordare che il tatuaggio è voce.
© Luisa RavasiUna foto ricordo con Ate, nella sua casa sulle montagne di Baguio
© Luisa RavasiSulla strada per Buscalan, a bordo di un jeepneyIl viaggio verso Buscalan ha qualcosa di irreale: sidecar sgangherato, poi sei ore su un jeepney stracarico; le ultime tre seduta sul tetto, tra casse di legno e galli legati per le zampe, il vento che taglia la faccia. Ogni curva è un salto nel vuoto. Il sole cala dietro le risaie. Dal lato opposto della valle appare Buscalan, il villaggio dei tatuaggi. Un ragazzo che si presenta come Rasta mi offre ospitalità a casa sua. Attraversiamo un ponte sospeso e risaliamo il sentiero tra stradine strette e case di legno così fitte che il cielo, a tratti, scompare. In un vicolo, un pentolone ribolle; su una panchina, una donna anziana sorseggia la sua zuppa di riso. Minuta, la pelle scura incisa dalle rughe, le braccia coperte di tatuaggi. È lei, Apo Whang-Od, la tatuatrice di 108 anni. Whang-Od Oggay è nata nel 1917, nelle montagne di Kalinga. È stata la prima donna del suo villaggio a tatuare.
© Luisa RavasiApo, tatuatrice ultracentenariaPer secoli, il tatuaggio era un sapere riservato agli uomini, trasmesso di padre in figlio. Ma Whang-Od ha rotto questa regola. A quindici anni, dopo la morte del padre che le aveva insegnato i primi gesti, decise di continuare da sola la tradizione quasi scomparsa. Per decenni ha tatuato senza immaginare che un giorno il suo nome sarebbe diventato simbolo universale di resistenza culturale. Dopo essere stata scoperta dalla comunità internazionale è diventata leggenda in tutto il mondo per il suo impegno nel mondo del tatuaggio, è la persona più anziana mai comparsa sulla copertina di Vogue e ha ricevuto il titolo di tesoro vivente nazionale delle Filippine. Negli ultimi decenni, vedendo i turisti arrivare sempre più numerosi a Buscalan e consapevole della sua età, ha compiuto un altro gesto di rottura con la tradizione: ha scelto di trasmettere l’arte del tatuaggio a delle nipoti acquisite, non avendo lei stessa figli.

Ha fatto ciò che nessuno prima aveva osato. In questo modo ha garantito che la tradizione non scomparisse e l’ha trasformata in un’eredità viva, capace di adattarsi senza perdere la propria radice. Oggi è riconosciuta come la più anziana tatuatrice ancora attiva del mondo. Non parla inglese, ma i suoi occhi raccontano. Mi guarda, sorride. Io sorrido a mia volta, e mi sento piccola accanto a lei. È tardi, non voglio disturbarla mentre mangia. Ci sediamo e condividiamo una zuppa di riso dolce. Rasta mi promette che domani mi accompagnerà da Apo per farmi tatuare.
Al mattino raggiungo una piazzetta sotto la tettoia, studio di Whang-Od. Sono le otto e mezza e sono l’unica visitatrice: una calma insolita, nelle giornate di punta arrivano anche duemila persone per farsi tatuare da lei. La saluto. Mi osserva i tatuaggi. Attraverso Rasta mi dice che le piacciono perché riesce a capirne il significato. Mi chiede dove voglio tatuarmi; le indico uno spazio sulla gamba. Nota il segno di Ate poco sopra e sorride piano. Con un bastoncino intinto nell’inchiostro disegna tre piccoli puntini, la sua firma. Non per mancanza di abilità, ma la vista è affaticata e l’età avanza. I tre puntini rappresentano lei e le sue prime due nipoti, è il simbolo della continuità della tradizione. Poi inizia a picchiettare con la spina di calamansi. Qualche minuto e il tatuaggio è finito.
© Luisa RavasiApo mentre mi tatuaNon c’è nessuno oltre a me e così è lei ad attaccare bottone. Vuole sapere se sono una tattoo hunter, non so bene cosa significhi, ma dico di sì e le racconto del mio viaggio. Guarda incuriosita le foto delle altre culture del tatuaggio: Mentawai, Iban, Sak Yant. Sorride, i suoi occhi si accendono di interesse. In fondo è una nonna di un remoto villaggio di montagna, che ride e commenta a bassa voce immagini di un mondo lontano. È in questa normalità che la leggenda si ridimensiona: Whang-Od non è solo l’icona globale consacrata dai media, è una donna che ha scelto di restare, continuando a tatuare con la stessa costanza per una vita intera.
© Luisa RavasiCon ApoRimango a Buscalan alcuni giorni: aiuto nelle risaie, cucino con le famiglie, mi perdo nei vicoli. Torno più volte da Apo, conosco le sue nipoti, ricevo altri tatuaggi. La vita scorre lenta, interrotta dal picchiettio che a tratti riempie le strade. Nel fine settimana le file si allungano; c’è chi viene con rispetto, chi solo per ottenere un trofeo. Apo è sempre lì, sotto la tettoia. Lavora tutto il giorno, tatuaggio dopo tatuaggio. Mille volti, un unico gesto. Ogni tanto ride, più spesso rimane in silenzio. Più la osservo, più la vedo come un’anziana ribelle che porta avanti la sua missione, giorno dopo giorno. Il suo traguardo più grande non è la fama: è la sopravvivenza del tatuaggio filippino.
© Luisa RavasiPranzo comunitario dopo il lavoro nelle risaieAll’inizio pensavo che Ate e Apo fossero due mondi in conflitto: una che lotta e una che è già stata consacrata; una che cerca, l’altra che custodisce; una giudicata, l’altra venerata. Poi ho capito: non sono due strade opposte, ma due stagioni della stessa fioritura. Apo significa “nonna, antenata, venerabile” è la radice che affonda nel tempo. Ate è “sorella maggiore”, è il germoglio che spinge verso il futuro. Apo è il silenzio del rito, Ate il rumore della ricerca. Una è il tramonto, l’altra l’alba.
Nel mondo ci sono tradizioni che sopravvivono ed evolvono. Nel Nord delle Filippine ho incontrato due persone che lo rendono possibile: Ate e Apo. Due donne. Due tatuaggi. Una storia. Ma allora come fa il tatuaggio a diventare missione? Non è la tecnica, non è la fama, non è il riconoscimento esterno. Diventa missione quando il segno inciso sulla pelle non è solo un ornamento, ma voce di un’eredità che non vuole spegnersi.
Tradizione e modernità non si oppongono: si incontrano proprio lì, tra chi ricorda e rinnova, tra il silenzio del rito e il rumore della vita. Se sai perché lo fai, se lo porti con autenticità, allora ogni tratto acquista senso e diventa parte di una storia più grande di te. L’anima del tatuaggio non si trova nell’ago, né nel motivo inciso, ma nella scelta di continuare, nella ricerca che non si ferma, nel coraggio di trasformare un gesto antico in vita presente. Colpo dopo colpo. Puntino dopo puntino. Vita dopo vita.
© Luisa RavasiUna delle nipoti acquisite di Whang-Od