Errare

Non bastano mai… il sangue e la pioggia

Forse rimarremo con un solo granello di brace accesa fra le mani, a soffiare perché scotta, ma anche perché è rimasto acceso

Vasilika
(© Nicole Pedrini)
8 giugno 2025
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Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Errare, o andare per via senza meta, è una rubrica di racconti. È un gioco con il vuoto, in cui tacciono le certezze, i dati, le cronache, ma parlano i silenzi, gli sbagli, il dietro dell’angolo che non svoltiamo. L’invisibile cessa di essere mostruoso oppure, come unica alternativa, ridicolo. Errare poi è un verbo che suona, facciamo finta che sia solo un fruscio, al massimo un sentore. Errando catturo delle immagini. Ogni cosa mi risulta tragicomica e questo è il carattere di Errare, forse l’unica patria che gli è concessa.

Ammetto: fatico a parlare di quello di cui tutti parlano, a seconda dell’epoca. Esistono però diatribe colossali che prescindono dalle etnie, dagli schieramenti, dalle tendenze delle testate giornalistiche, dai logaritmi che influenzano i nostri pensieri. L’importante poi, quando si prova a parlare di qualcosa, è farlo partendo da ciò che è più organico per sé, senza trastullarsi con le visioni di altri.

La pioggia e il sangue si trovano in diversi miei racconti. Spesso mescolati. Oggi mi chiedo: fra i vari elementi naturali che hanno lambito il suolo del pianeta che ci ospita, a partire dalla notte dei tempi, sarà maggiore la quantità della pioggia oppure quella del sangue? Mi pongo spesso certi quesiti, impossibili da risolvere in modo logico-deduttivo. Cerco di vedere il mondo come un unico organismo vivente, una cellula in fondo simile a quelle che ci compongono, un embrione di pensieri in costante evoluzione, del quale non è dato carpire la scintilla che lo muove simbolicamente. Ma non ci possiamo dimenticare dei simboli, né delle metafore.

Simboli e metafore

Non sarà questa nostra attuale civiltà a offrirci tali spiegazioni, forse qualcuno di noi, ma non la civiltà che i cosiddetti sistemi politici vanno dicendo di voler proteggere e fare evolvere. La nostra civiltà non si cura dei simboli, è come una grande asfaltatrice vorace, che divelle la terra sulla quale non potrà più ripassare. Che cosa sciocca. Essi edificano, da sempre, su una precarietà che però rimuovono da libri di storia, pensieri e discorsi. Negano le fragilità, coprono le menzogne, tacciono i propri drammi. Il costo è di tutti, ma sono soprattutto loro a perderci, in termini di spreco di vita. Spacciatori di terrore e di finte certezze, egopatici incapaci di sacrosanto silenzio, di genuino vuoto.

Come puoi edificare tanti pericolanti concetti su un suolo del quale peraltro sai talmente poco? Come puoi innalzare tutta una presunta civiltà, tutto quel potere assoluto, su un immaginario di pianeta che pretendi di riassumere come un mero insieme di placche tettoniche? Apprendo che gli scienziati non hanno ancora compreso fino in fondo come facciano i girasoli a seguire la traiettoria solare. La scienza non sa neppure dire con precisione come la coscienza si sviluppi nel cervello umano. Non si sa cosa sia, con certezza, il nucleo del pianeta che ci ospita. Non si sa come faccia, la parte esterna di esso, a interagire con il mantello terrestre generando il campo magnetico che in sostanza ci tiene in vita, ci permette di non ardere, disintegrati dai venti solari. Non si sa neppure di cosa sia composto il nucleo del sole, il corpo celeste, l’onnipresente simbolo misterioso dal quale dipendiamo. Non se ne conoscono appieno le fluttuazioni.


© Matteo Beltrami
Musicista

Il conforto del dubbio

A me queste cose confortano, provo un amore verso il dubbio, abbraccio con convinzione l’inconsistenza che caratterizza la nostra specie. L’insignificanza è il metro di misura che mi permette di ponderare anche i passi più importanti. Ma il potere, quello materiale, è in mano a chi se lo prende. Cricche baldanzose che costruiscono catapecchie su ignote paludi dell’anima, senza neppure sapere a chi appartengano, quelle lande, o se reggeranno. Si autoincensano, definiscono quelle catapecchie tempi di democrazia, case bianche, governi e dicono a tutti di sacrificarsi per la nostra sicurezza, per il nostro avvenire. Manipolano la nostra fiducia, la pretendono. Ma solo un formichiere implora la fiducia delle formiche.

Alla domanda iniziale verrebbe da rispondere in maniera univoca: è maggiore la quantità di pioggia, ovvio. Ma il sangue è un simbolo. I simboli hanno più valore della statistica, dei numeri, e i potenti questa cosa non la considerano, non la sanno neppure, ciò che ignori ti si ritorce puntualmente contro, è sempre successo. Ogni creatura vivente è colma del proprio sangue. Ogni creatura animale o umana nata e vissuta dall’inizio dei tempi, ha versato il proprio sangue degnamente, brutalmente o senza nemmeno il tempo di accorgersene, lo ha rimesso alla terra, alla fine. Immaginiamole, queste creature. Dalla mosca al bambino, dal vitello all’imperatore. Nel team dei morti ci sono tutte le generazioni di africani schiavizzati; qualsiasi stirpe di nativi americani; tutti i vichinghi; tutti quelli che hanno fatto l’impero romano, dal calzolaio al gladiatore; tutti i musicisti di blues di inizio secolo scorso; i samurai; Cristoforo Colombo e i suoi marinai; Churchill; i nonni; tantissimi orsi ma non solo: cervi, alci, microrganismi unicellulari; tutti quelli delle torri gemelle; i desaparecidos; Bud Spencer; un sacco di anonimi, tantissimi anonimi. È impossibile pensarli tutti. È come immaginare l’infinito che ci sovrasta.

Le stesse cricche che edificano il loro potere vorace sulle ignote paludi animiche, desiderano essere i padroni della geopolitica, della vita e della morte. Lo hanno sempre fatto, ovunque. Piove sangue. Loro non si curano del sangue, non considerano i simboli. Non sanno nemmeno perché i girasoli voltino i loro dischi sempre verso il sole. Verrebbe da pensare di non voler più abitare un pianeta tanto brutalizzato, ma non possiamo, questo habitat è dentro di noi. Tutto ciò si chiama conflitto, loro non lo sanno ma è prezioso come il sole ed è contenuto proporzionalmente in ogni sistema. Una stella, uno Stato, una galassia, un corpo umano, una foglia, una cellula. Simbolicamente non vi è differenza fra questi sistemi.

Il ritorno del conflitto

Il conflitto altro non può essere, se non la chiave per la cura. La vera cura. Ogni conflitto non ascoltato, rimosso, purgato tramite soprusi, soluzioni tappo, terapie d’urto, ogni conflitto ingannato ritornerà con maggiore veemenza mediante forme nuove, codici che all’apparenza non avranno un nesso con quelli precedenti ma che ne saranno la diretta conseguenza. È una legge naturale, certi pretendono che non ci debba interessare, ma in fondo la viviamo quotidianamente, questa legge. In famiglia, al lavoro, dentro di noi soprattutto.

Quello che va ritorna sempre. Quello che uno fa poi gli viene restituito. Nel bene e nel male. Non è così? Fra cellule, fra persone, fra etnie, fra stormi, è la stessa legge.

Prepariamoci dunque a epoche in cui risulterà necessaria una grande resistenza simbolica, una sconfinata e inscalfibile bellezza, un’irriverente e impetuosa potenza animica. Ricordiamoci sempre che chi è sprovvisto della capacità di curarsi dei conflitti, o di cose come il respiro, il sacro sangue che scorre invano, le proprie colpe, lo spirito, la luce emanata dalle creature innocenti, è e rimarrà in eterno incommensurabilmente misero. Più misero ancora del più immondo ratto, che al suo ruolo naturale, perlomeno, è capace di adempiere. Esponenzialmente più misero di ogni minuscolo e anonimo corpo mischiato alle macerie, affogato, schiavizzato, venduto. Più misero de Los Nadies, i Nessuno, raccontati da Galeano nell’omonima poesia.

Il potere mondiale è dei miserabili, non il contrario, come dicono, o come sembra. Ciò che è misero crollerà come un grattacielo caricato di dinamite e fatto esplodere. Ciò che è realmente misero crollerà, si autodistruggerà, nonostante lo sfarzo che millanta con le sue bandiere di certezza.

Il costo sarà di tutti. Forse rimarremo con un solo granello di brace accesa fra le mani, a soffiare perché scotta, ma anche perché è rimasto acceso.