Errare

Non cercarla

‘Ero agitato perché quel giorno lo avrei dedicato alla ricerca di una cosa molto importante, lo avevo deciso la sera prima’

Lei, l’ha trovata!
(@ Matteo Beltrami)
6 luglio 2025
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Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Errare, o andare per via senza meta, è una rubrica di racconti. È un gioco con il vuoto, in cui tacciono le certezze, i dati, le cronache, ma parlano i silenzi, gli sbagli, il dietro dell’angolo che non svoltiamo. L’invisibile cessa di essere mostruoso oppure, come unica alternativa, ridicolo. Errare poi è un verbo che suona, facciamo finta che sia solo un fruscio, al massimo un sentore. Errando catturo delle immagini. Ogni cosa mi risulta tragicomica e questo è il carattere di Errare, forse l’unica patria che gli è concessa.

Era tardi per chiamarla; ancora notte. Mi dovevo arrendere. Ero sveglio da circa tre ore ormai, fissavo la penombra uniforme e azzurra di quell’alba minacciosa d’aborto. Sentivo lo stomaco acido e vuoto. Eppure la mente chiedeva caffè, sempre altro caffè. Ristretto, buttato giù con qualche biscotto dolciastro. Tentavo, con una premura molto intima, di sperare che la sveglia suonasse prima del pianificato. La mia testa stava già lavorando a regime alterato, producendo saette d’idee e progetti, dandomi falso entusiasmo ad ogni nuovo desiderio. Era un’energia chimica, dovuta al mancato riposo.

Ero agitato perché quel giorno lo avrei dedicato alla ricerca di una cosa molto importante, lo avevo deciso la sera prima. Facevo il cuoco. Mi ero dato malato dal lavoro, lo chef mi aveva supplicato ma io avevo retto il teatrino. La corda era tesa e pensavo di cambiare lavoro. Quel giorno lo avrei dedicato alla ricerca della calma perduta. Mormorai un insulto indirizzato alla sveglia e la disattivai prima del tempo.

Mi alzai dal letto. Il bramato caffè, preparato rapidamente, scese fornendomi meno piacere del previsto, i biscotti non sapevano di nulla. Poco importava, dovevo andare, l’avrei trovata altrove, la mia calma. Uscendo di casa mi resi conto di avere un accenno di vertigini, inoltre i miei occhi sopportavano male la luce. Mi diressi verso il centro, lì avrei pensato alle mosse successive, le idee spaziavano: avrei potuto cercare la calma in una libreria, in un bar, in una sala giochi, sul prato di un parco, in un cinema. Avrei valutato meglio una volta arrivato in centro, di questo ero convinto, di questo ero sicuro. L’importante era andare.

Con un tram arrivai a circa un chilometro dalla piazza principale, a quel punto preferii scendere e camminare, per iniziare a godermi la città, per iniziare a cercare la mia calma perduta. Dopo una decina di passi notai che tutto era ancora chiuso. Logico. Librerie, cinema, sale giochi, caffè. Soltanto serrande abbassate e io da solo nel mio vuoto. “Maledetta fretta”. Mormorai sprezzante.

Arrivai in piazza e scelsi una panchina vicina a degli alberi, pensai che avrei potuto iniziare a cercare la calma osservando la città risvegliarsi. Dopo trenta minuti mi accorsi che il traffico mi stava solo infastidendo e che guardare i bottegai alzare le saracinesche con calma, fumando e conversando con i colleghi del più e del meno, mi faceva solo sentire più ansioso.

“Vedi come fanno piano? E lavorano pure”.

Iniziai ad avere i primi dubbi seri verso le dieci del mattino, quando, dopo aver camminato per un paio d’ore a zonzo, iniziarono a farmi male le gambe. La gola mi bruciava a causa dello smog. Al mercato la mia calma non c’era, troppa puzza. Nella libreria i libri costavano troppo, non era un luogo per la mia calma. La sala giochi era troppo rumorosa. Al cinema non c’era nulla di degno in programma fino alle cinque del pomeriggio. La città mi sembrava più fastidiosa di quando la frequentavo per lavoro.

Verso mezzogiorno mi sentivo totalmente frustrato, perché mi ero alzato apposta per cercare la calma perduta, ero uscito di casa molto presto sentendomi quasi uno di quei contadini che parlano con la natura, eppure quella scorbutica non tornava, chissà dov’era. Tutto quel casino per niente, avevo anche sprecato un giorno di finta malattia che potevo tenermi in buono per qualche altra occasione.

Decisi che mi sarei fermato per mangiare qualcosa in qualche paninoteca, magari sorseggiando con calma una birra fresca. Così feci, ma mi sentii solo, talmente incompatibile con tutto quello che mi attorniava. Uscito dal locale mi sedetti sul muretto che circondava una piccola chiesa di quel quartiere centrale, pensai di digerire con calma il pasto. Mi sforzai di respirare a fondo, conoscevo tecniche di training autogeno.

Dopo alcuni istanti sentii come un fruscio alle mie spalle, verso il basso. Mi voltai e guardai dall’altra parte del muretto, in direzione del prato immacolato e fresco. Un anziano piuttosto sporco era rannicchiato sotto a una coperta e sopra a uno strato di cartoni anch’essi sudici e vecchi. La sua testa, avvolta da una cuffia da nuoto bianca e rossa, faceva capolino come se fosse un fungo enorme fra le foglie bagnate. La coperta sembrava comunque accogliente e il viso del vecchio era rilassato. Capii che l’uomo si stava per svegliare, poco dopo infatti aprì gli occhi lentamente e nello stesso modo iniziò a stirare tutto il corpo. Arti e ossa si animavano sotto a quella scarlatta coperta che mi sembrava comoda. La danza durò per un paio di minuti buoni. Partirono un paio di scoregge, seguite da sue sghignazzate. “Ma tu guarda che bel risveglio”. Dissi a bassa voce.

Poi l’anziano si mise seduto, ancora non mi aveva notato. Mosse lateralmente la mandibola, prima a destra, poi a sinistra. Rimase intontito a fissare i trifogli sparsi sul prato, pensai che stava ripensando a un bel sogno appena fatto. Guardò in alto, verso il campanile e proprio mentre iniziava a farsi il segno della croce mi notò. I nostri occhi si incrociarono, eravamo vicini, l’aria ancora fresca era quella di inizio primavera. Poi il vecchio parlò e la mia giornata si risolse:

“E tu chi saresti?”. Mi chiese con mio stupore. La sua voce era di una tonalità esile e acuta, però era rilassata, come un sospiro.

“Buongiorno, mi sono seduto qui per digerire”.

“Idiota”, mi rispose sghignazzando e stringendo gli occhi trasformando il suo sguardo in quello di un pacioso topo felice.

“Scusi signore, ma perché mi dà dell’idiota?”.

“Perché a trent’anni ti fermi per digerire”.

“28”.

“E allora sei un idiota”.

“Il fatto è che mi stavo anche annoiando”.

“Perché ti annoi, ragazzo?”.

“Cercavo un po’ di calma e non l’ho trovata”.

“Cercavi un po’ di calma o cercavi la tua calma?”.

“La mia calma”.

“Io la conosco, me la sono fatta”. Emise una risata che gli esplose dal corpo tramite un sibilo e poi divenne lunga e tranquilla. Non sapevo come o perché, ma lo stavo invidiando.

“Ti sei fatto la mia calma, vecchio?”.

“Non mi chiamo vecchio, io sono il T.G.O.”.

“Chi?”.

“Il T.G.O, io sono il Tuo Giorno Odierno”.

Pensai che mi avesse appena svelato la sua psicosi. Ma poi proseguì.

“Sono il tuo giorno e non è una buona cosa quando uno si sveglia prima del suo giorno, peraltro agitandosi, è pericoloso”.

“Facciamo che ci credo, tu sei il mio giorno. Mi sai dire dov’è la mia calma?”.

“È ancora a casa tua, coglione, proprio dove dovevo venire io fra circa un’ora a svegliarti. Mi precedi sempre”.

Il mio giorno si rimise a dormire senza neppure congedarsi. Io tornai a casa, sicuramente sconsolato, ma anche un po’ incuriosito da certe frasi deliranti. Arrivato davanti alla porta sentii una voce di donna che cantava una melodia lenta e dolce.

Mi spaventai, io abitavo da solo. Riuscii ad aprire la porta anche se mi tremavano le mani. Corsi verso il punto da dove proveniva quel canto di sirena. Nel mio letto c’era la mia calma.

“Dove sei stato, coglione?”, mi disse con dolcezza.

“A cercarti”.

“E invece io ero qui, non mi hai vista? Rifatti un caffè, ma stavolta senza fretta”.

Caricai il caffè e lo guardai salire mentre ascoltavo un cd, dallo scaffale presi un libro e tornai a letto.


@ Matteo Beltrami