L'alpinista racconta il suo amore per la montagna e l'arrampicata, che oggi significa anche confrontarsi con le conseguenze del cambiamento climatico
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Nel 1986, Massimo Bognuda ha aperto la sua prima via sul Poncione di Piotta. Nato nel 1969 con gli scarponi ai piedi, come si suol dire, da quella volta nella valle di Lodrino, l’alpinista ticinese non ha più smesso la sua passione per la verticalità. Oggi è responsabile dell’istruzione tecnica dei giovani al Cas e all’Utoe Bellinzona e Valli, nonché esperto GS nella formazione dei monitori.
Classe 1969, Massimo Bognuda, benché da allora siano passate svariate decine di anni, se la ricorda bene la sua prima volta: il 1° agosto 1986 a tracciare una via sul Poncione di Piotta, nella valle di Lodrino.
«Ero al seguito di Piero Menucelli, allora capocolonna, e Geo Weit, due esperti alpinisti del Club Alpino Svizzero sezione Bellinzona e Valli – premette Bognuda, responsabile dell’istruzione tecnica dei giovani in seno a Cas e Utoe Bellinzona ed esperto GS (Gioventù e Sport) nella formazione dei monitori –. Io, invece, avevo 17 anni. Ricordo che abbiamo aperto una via sul versante nord-est del Poncione di Piotta, che a tutt’oggi resta meno gettonato rispetto alle vie più classiche, anche perché la valle di Lodrino è più discosta rispetto ad altre falesie (tipo quelle del San Gottardo o della Val Bedretto). Quella prima volta è stata davvero speciale per me: ho potuto vedere come si tracciava una nuova via».
A chi si inerpica per passione e sport per le rocce del nostro cantone, il suo nome sarà già capitato di sentirlo. Perché dopo quella sua ‘prima volta’ in compagnia di alpinisti più esperti, Massimo Bognuda di vie ne ha tracciate diverse altre, in prima persona. «Restando nella zona di Lodrino, ho ad esempio aperto diverse vie in zona Lagua, ma pure una sopra Santa Maria, in Val Calanca, e risanato altre falesie, come in Valle di Gorduno e a Galbisio, che spesso fanno da campo di pratica per i corsi giovanili che proponiamo come Cas Bellinzona». Ce ne sono ancora tanti di giovani che si lasciano ammaliare dal fascino dell’arrampicata sportiva? «È un’attività che piace sempre parecchio ai giovani. Basti pensare che ai corsi che proponiamo per i giovani a Bellinzona siamo sulla sessantina di partecipanti, suddivisi in diversi gruppi e su diverse serate. Qualcuno poi, dopo le prime volte, decide di smettere, ma c’è sempre un buon numero di giovani arrampicatori che continua per questa via verticale».
© M. Bognuda
Massimo è una di quelle persone praticamente nate con… gli scarponi ai piedi. Fin da bambino infatti le escursioni in quota hanno fatto parte del menu del suo tempo libero. Lunghe camminate in montagna, che ben presto si sono fatte sempre più verticali, fino a divenire arrampicate vere e proprie. «Mi sono avvicinato all’arrampicata con i corsi del Cas a Bellinzona. Quella sensazione che provavo rilancio dopo rilancio mi piaceva, adoravo quella scarica di adrenalina e la sensazione di libertà, provate a stretto contatto con la natura».
Le alture sopra Lodrino, di dove è originario, e dei suoi dintorni le conosce come le proprie tasche, avendole percorse passo a passo praticamente tutte. Ma non solo quelle e, soprattutto, non limitandosi a esplorarle in… orizzontale, ma salendoci anche in verticale. «Bene o male le arrampicate nelle zone più classiche del Ticino le ho frequentate tutte. Va pur detto che l’arrampicata sportiva, quella che nella natura viene praticata su pareti appositamente tracciate, è piuttosto settoriale: le falesie più note sono, tanto per citarne alcune, quelle di Ponte Brolla, Osogna, Lodrino, Cresciano come pure quelle dei Denti della Vecchia, tutte documentate anche in una guida specifica a cura del Club Alpino Svizzero e in costante aggiornamento». Pareti, quelle elencate da Massimo Bognuda, che attirano anche folte schiere di arrampicatori da oltre San Gottardo, come pure da altri Paesi. Come mai? «Soprattutto per il clima che caratterizza il nostro cantone. Nelle belle giornate, qui, si può arrampicare su una falesia esposta al sole praticamente tutto l’anno, tolti quei giorni in cui è particolarmente freddo o la roccia è bagnata».
C’è una parete a cui Massimo Bognuda si sente per qualche motivo più affezionato? «Non in modo particolare: a me basta stare all’aria aperta ed è sempre una magia. Poi, va da sé, molti hanno la loro palestra naturale preferita, vuoi per le caratteristiche della roccia e del panorama circostante, vuoi per le abilità tecniche che si devono avere per ‘domarla’: insomma, per le pareti, come per tutte le altre cose, la preferenza è un aspetto prettamente soggettivo».
© M. Bognuda
Mai avuto paura in parete? «Un pizzico di paura lo si prova sempre. Ma è quel genere di timore misurato che ti porta ad acuire i sensi e ad aver sempre rispetto per l’ostacolo che hai davanti. La paura è un termometro interno che va sempre tenuto sotto controllo: quando raggiunge la soglia di guardia, allora è il momento di tornare sui propri passi e semmai riprovarci un’altra volta. La montagna non scappa, per cui è superfluo ostinarsi prendendo inutili rischi».
Come è cambiata, se è cambiata, la montagna in questi anni? «Rispetto alle mie prime arrampicate col gruppo giovanile del Cas, la montagna è indubbiamente cambiata, e anche parecchio. Soprattutto per effetto dei mutamenti climatici in atto un po’ dappertutto e del conseguente ritiro dei ghiacciai. Fenomeni che hanno cambiato non poco il paesaggio alpino e il suo profilo orografico, aspetti di cui chi si inerpica per sentieri alpini o affronta una falesia con corda e moschettoni, deve tener conto. Alcuni itinerari sono giocoforza diventati più insidiosi, soprattutto in prossimità dei ghiacciai: il loro avvicinamento è diventato più problematico proprio a causa del rilascio di questo materiale instabile. Si potrebbe pensare che il ritiro dei ghiacciai e delle nevi in quota abbia permesso di allargare il ventaglio delle vie praticabili, ma questa è una considerazione purtroppo solo superficiale: questi fenomeni di per sé hanno comportato e comportano più problemi che altro, almeno a corto e medio termine. Affinché le aree lasciate libere da ghiacci e neve possano presentare una buona stabilità per poterci camminare sopra ci vuole una buona decina d’anni. Un po’ diverso, invece, è il discorso delle arrampicate in quota, diciamo dai 2’500/4’000 metri in su: a causa del ritiro di permafrost e ghiacciai alcune pareti rocciose possono essere più soggette a frane rispetto a qualche decina d’anni fa».
© M. Bognuda