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Quando l’ideologia di sinistra si traveste da scienza

In un recente contributo pubblicato tra queste colonne, due economisti ci hanno ammonito contro quella che definiscono “retorica del buon padre di famiglia”, bollando come ideologica e infondata ogni preoccupazione relativa alla crescita del debito pubblico. Secondo loro, lo Stato non è una famiglia e può – anzi deve – indebitarsi per finanziare servizi, sostenere la domanda, promuovere l’uguaglianza e, già che ci siamo, salvare l’economia e il mondo. Dietro questa nobile narrazione si cela la visione di uno Stato trasformato in un distributore automatico di soluzioni, sempre pronto a mettere mano al portafogli con l’illusione che ogni problema possa essere risolto con un assegno. Un’idea comoda per chi non deve occuparsi di far quadrare i conti, ma decisamente pericolosa per chi quei conti li dovrà pagare un domani.

Chi invoca prudenza viene accusato di allarmismo, chi propone una revisione della spesa viene tacciato di ideologia. Eppure, se lo Stato deve davvero farsi carico dell’interesse collettivo, dovrebbe comportarsi con una logica simile a quella di una famiglia responsabile: evitare sprechi, valutare le priorità, non accumulare debiti a cuor leggero e non ipotecare il futuro dei figli per accontentare le esigenze di oggi. È questa la vera funzione pubblica, non quella di un bancomat permanente per ogni richiesta politica mascherata da “bisogno”.

Non si tratta di allarmismo ideologico, ma di buon senso già applicato altrove. Il Canton Basilea Campagna, con un buco previsto di oltre 100 milioni nel 2025, ha annunciato tagli mirati, inclusa la riduzione degli impieghi pubblici tramite pensionamenti non sostituiti. Anche il Vallese va nella stessa direzione: meno personale, più efficienza, riorganizzazione interna, senza licenziamenti ma con un ridimensionamento netto dell’amministrazione. Una rotta di responsabilità che avremo modo di discutere anche in Ticino, e non certo sotto la spinta del Consiglio di Stato o del Gran Consiglio, ma perché un’iniziativa popolare pendente impone finalmente di affrontare il tema. Si tratta di un semplice esempio di buonsenso, già messo in pratica da governi cantonali che si rifiutano di gonfiare all’infinito la macchina pubblica.

Tornando alla retorica dei due economisti, secondo cui lo Stato dovrebbe compensare le fragilità strutturali dell’economia locale, essi ignorano volutamente che molte di queste fragilità sono create o almeno accentuate da politiche che si vorrebbe mantenere “intoccabili”. Primo fra tutti: il dogma della libera circolazione delle persone, che ha esasperato la concorrenza salariale, favorito il dumping, sostituito la manodopera indigena con quella frontaliera e messo sotto pressione interi settori, rendendo necessario – guarda caso – un aumento della spesa sociale per tappare le falle. Ma se lo Stato si limita a rincorrere i danni di determinate scelte che non osa mettere in discussione, non è più guida: è gregario.

Curioso poi che gli autori denuncino la “retorica delle casse vuote” evocando Grover Norquist, salvo poi proporre una versione ticinese dello “Stato provvidenza” con fondi infiniti, dove ogni limitazione è anatema e ogni taglio è un attacco alla civiltà. Una difesa dello statalismo più dogmatico mascherata da buon senso sociale: Orwell avrebbe di che prender nota. Quanto all’invocazione finale relativa agli “investimenti pubblici” in sanità, digitale e innovazione: nessuno contesta il valore di questi settori strategici. Infatti, la questione non è il cosa, bensì il come. Senza una cultura della valutazione, del merito e dell’efficienza, si rischia solo di alimentare una macchina statale burocratica, costosa, autoreferenziale e scollegata dai risultati.

Il Ticino non ha bisogno di più spesa pubblica, bensì di una spesa pubblica migliore: equilibrata, selettiva ed efficace. Serve uno Stato meno ingombrante ma più lucido, che abbia il coraggio di dire pure “No”, anche quando sarebbe più comodo distribuire “Sì” come fossero caramelle, lasciando ai nostri figli il peso delle rinunce che non si è avuto il coraggio di fare oggi, accecati dall’illusione che la generosità a debito sia una virtù e non una fuga dalle responsabilità.