laR+ IL COMMENTO

Alla scoperta dell’anatomia trumpiana: dal punto G al tallone di Achille

L’unico ambito in cui la Svizzera avrebbe un potere di fuoco col tycoon riguarda la Bns e la sua illimitata capacità di intervenire sui mercati dei cambi

In sintesi:
  • Le Pmi elvetiche con vocazione esportatrice si confrontano con un dilemma irrisolvibile
  • La Confederazione, in quanto Paese di piccole dimensioni, non può garantire acquisti massicci di beni americani
(Keystone/laRegione)
13 agosto 2025
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Il 6 settembre 2011, di fronte allo sconquasso dei mercati finanziari post 2008 (epicentro: Usa, fallimento della Lehman Brothers, scoppio della bolla ‘subprime’) e successiva crisi dei debiti sovrani europei – crisi che determinò un notevole apprezzamento del franco –, l’allora presidente della Banca nazionale svizzera, Philipp Hildebrand, pronunciò con tono solenne poche ma incisive parole davanti ai media: “Da subito non tollereremo più un corso tra euro e franco inferiore a 1,20: difenderemo questa soglia con la massima determinazione. Per farlo siamo pronti ad acquistare quantità illimitate di valuta estera”. La soglia minima tra euro e franco, pensata e introdotta per evitare uno spiraglio recessivo-deflattivo e per consentire la sopravvivenza dell’export elvetico (generatore all’epoca di circa il 50% del Pil; attualmente qualcosa in più) durò tre anni e pochi mesi. Il 15 gennaio 2015 il successore di Hildebrand, Thomas Jordan, annunciò a sorpresa l’abolizione della misura, con un dato che oggi può risultare piuttosto significativo: la prima reazione dei mercati dopo la soppressione della soglia minima è stata un balzo del franco svizzero nei confronti di euro e dollaro del 39%.

Di fatto l’imposizione americana di dazi doganali del 39% sulle merci svizzere sarebbe paragonabile nei suoi effetti concreti, qualora interamente traslati a prezzo, a un rafforzamento del franco di analoga proporzione. Proibitivo. Tanto che le aziende elvetiche, in particolare le Pmi con vocazione esportatrice si confrontano con un dilemma irrisolvibile: sacrificare competitività o redditività (entrambe sono intrinsecamente collegate). Ergo, sin dall’annuncio di Donald Trump dello scorso 1° agosto e consapevoli del rischio di una tale stangata per l’intera economia nazionale, il Consiglio federale, i partiti politici e il mondo imprenditoriale continuano a disquisire su quale sia il vero ‘punto G’ del tycoon da dover raggiungere, quel tassello di compiacenza che possa portare il presidente americano a rivedere la sua decisione. Un atteggiamento – vomitevole – di totale sottomissione che non garantisce, d’altronde, l’ottenimento di qualsivoglia concessione: la Svizzera, in quanto Paese di piccole dimensioni, non può – fortunatamente – promettere acquisti massicci di beni americani, che siano carne, armi o idrocarburi.

L’unico ambito in cui la Confederazione avrebbe un potere di fuoco, perfino di fronte a un bullo come Trump, riguarda la Bns e la sua pressoché illimitata capacità di intervenire sui mercati dei cambi. Nel bel mezzo della guerra commerciale innescata per mascherare e risolvere la crisi del debito sovrano Usa, si potrebbe per esempio paventare, in fase negoziale, l’ipotesi di una parità tra franco e dollaro che implicherebbe una svalutazione della moneta elvetica di circa il 24%, portando il peso “residuo” dei dazi al 15% (come l’Ue e il Giappone), e che determinerebbe al contempo una riduzione – ambita dallo stesso Trump – del prezzo in dollari dei farmaci prodotti in Svizzera (@Martin Schlegel: was denken Sie darüber?).

Il sovranismo più becero incarnato dal tycoon – e ammirato ancora da molti da queste parti (nonostante qualche tiepido pentimento) –, quella declinazione a politica di Stato della fallace dottrina dell’individualismo per cui il perseguimento dell’interesse personale a oltranza porta automaticamente al benessere generale, andrebbe contrastato con delle risposte politiche ed economiche perlopiù eterodosse e di un certo spessore: di Trump, insomma, più che il punto G andrebbe scovato il tallone di Achille.