laR+ Il ricordo

Fenomenologia di Emilio Fede

Si è letto che è stato un pioniere di questo e di quello, che è ciò che si scrive in Italia quando muore qualcuno di cui è difficile parlare davvero bene

Barcellona Pozzo di Gotto, 24 giugno 1931 - Segrate, 2 settembre 2025
(Keystone)
4 settembre 2025
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Il sentimento che nella prima metà degli anni Novanta prese molti italiani di fronte al trafelato e compiaciuto servilismo del Tg di Emilio Fede si mascherò, in quell’epoca meno cauta di oggi con le aggettivazioni, dietro tanti nomi: disprezzo, schifo, vergogna, incredulità, imbarazzo.

In realtà era una cosa ben precisa: orrore.

Il modo in cui cioè chiamiamo la paura quando tocca corde troppo personali, quando qualcosa non minaccia soltanto di farci male ma di trasformarci.

Nel Paese più fazioso e servile del mondo – dai tempi secondo un luogo comune non privo di fondamento dei guelfi e dei ghibellini, del Papa e del re –, la faziosità e il servilismo erano forse gli ultimi tabù nazionali rimasti: erano ovunque, e proprio per questo almeno ce ne si vergognava.

Emilio Fede che lacrimava in diretta per i successi del capufficio-presidente del Consiglio, che atterriva coi fantasmi del comunismo la proverbiale casalinga di Voghera, che gemeva orgiasticamente dei guai degli avversari, che quasi letteralmente sbavava quando parlava di Lui, Silvio Berlusconi, destava tanta impressione perché davvero era il biblico Avversario. Non cioè l’Altro, la minaccia venuta da fuori, ma il mostro che ciascun italiano sapeva di avere dentro di sé, e che temeva di poter diventare.

Emilio Fede era come qualcuno che si ingozzava in diretta, lasciandola colare sul mento ben rasato e sulle camicie di sartoria, di una bevanda prelibata di cui tutto il Paese era segretamente ghiotto, ma che aveva il buon senso di provare a negarsi per non diventarne schiavo.

Lo faceva in maniera particolarmente crudele ed efficace, parodiando e distorcendo la maschera del misurato mezzobusto borghese che del resto era stato lui stesso, conduttore dal 1977 e poi direttore fino al 1983 del più che austero Tg1, prima di darsi al varietà e poi abbandonarsi al canto delle sirene (parliamo in senso figurato) di Arcore.

Palcoscenico

Ogni giorno Fede recitava lo stesso copione, ma come i bravi attori non si lasciava consumare dalla ripetizione: entrava in scena – perché quello del suo Tg4 non era oramai più uno studio ma un palcoscenico – ben determinato a fornire ai suoi telespettatori un resoconto imparziale e distaccato dei fatti del giorno. Sistemava i fogli, si schiariva la voce, benediceva con sguardi di bonaria severità le giovani e avvenenti collaboratrici. Ma ogni giorno, entro pochi minuti, le mascalzonate della sinistra o le meraviglie del centrodestra (fu tra i primi e più agguerriti alfieri di un’occupazione semantica del “centro” che persiste ancora oggi: il “centrodestra” non poteva che prevalere sulla “sinistra”, anche solo per ragioni di millesimi) avevano la meglio sui suoi sforzi di equanimità.

C’era un momento inconfondibile e tutto suo, un infallibile trucco da mattatore, una rottura furtiva della quarta parete in cui Fede sussultava, si interrompeva, poi quasi bisbigliava allo spettatore, guardandolo in tralice con una rapidissima smorfia a metà tra ammiccamento e scusa: via i guanti, era l’ora di dire la verità.

Che duro colpo al ceto medio riflessivo, alla borghesia delle lauree appese al muro e degli albi: Fede non era certo il primo giornalista della storia d’Italia, diciamo, a difettare di imparzialità. La propensione alla propaganda era sempre stata perdonata alla categoria, purché fosse accompagnata da un certo contegno professionale. Il mellifluo ma feroce direttore di quotidiano di Gian Maria Volonté in ‘Sbatti il mostro in prima pagina’ non era solo un carattere nazionale perfettamente integrato, ma un modello di realizzazione borghese. La mistificazione era quasi ammirata se svolta con sottigliezza, se si rivelava come opera d’ingegno a chi possedeva i codici per leggerla.

La spudorata partigianeria di Fede non appariva complessa in nulla, era una lingua senza sottotesti, in cui anzi il sottotesto diventava il testo. Scoprivamo così che la propaganda non era solo demagogica ma anche democratica: non solo si rivolgeva a tutti, ma tutti potevano farla.

Fede è stato un pioniere di questo e di quello, leggiamo in queste ore, che è quello che si scrive in Italia quando muore qualcuno di cui è difficile parlare davvero bene. Seguono parole in inglese: infotainment, branded news, house organ. Di certo ha praticato in anticipo il reel voyeurista, i fuori onda concordati con Striscia la Notizia, la satira in-house che celebra e crea il potere invece di attaccarlo, alla faccia di Petronio, Molière e pure di Michele Serra.

Infine, come sostanza più vistosa della berlusconiana seconda repubblica, la piaggeria di Fede ne rivelava in partenza la natura regressiva, restaurativa: gli italiani avevano votato in massa l’uomo più ricco del Paese sicuri che almeno sapesse distinguere il vero valore delle cose, ma se perfino lui aveva un appetito così insaziabile per l’adulazione, che speranza c’era che il Paese superasse la sua antica vocazione alle valute luccicanti ma inflazionate?

Fu una delusione sincera anche per i detrattori quando tra Fede e Berlusconi le cose finirono a olgettine in faccia: gli italiani si sentono un popolo di grandi amatori e perdonano qualunque peccato purché riconducibile, in maniera non importa quanto perversa o spericolata, all’amore. Il ventennio berlusconiano non contaminava il carattere nazionale a patto di poter continuare a credere nella sua natura fondamentalmente erotica. Scoprire che Fede, che di quell’erotismo era stato il Prévert, parlava del Capo con Lele Mora come di un qualsiasi pollo da spennare, fu il segno di un cambio di epoca: credere ancora che “l’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio”, come diceva qualcuno, si faceva terribilmente complicato.


Ti-Press
Giugno 2002, Campione d’Italia, Premio Maschera d’Argento