La curatrice Chus Martínez sarà ospite di Masi e Fondazione IBSA per parlare di connessioni tra arte, natura, tecnologia e sapere scientifico
Si parlerà di arte, di scienza, di ambiente, di intelligenze non umane. Soprattutto, «ci scambieremo idee gli uni con gli altri», perché «l’arte è un servizio pubblico»: è infatti questo il primo obiettivo di Chus Martínez, direttrice dell’Institute Art Gender Nature della Basel Academy of Art and Design, per l’incontro ‘La fortuna di avere la natura (come cultura)’ che si terrà giovedì 26 giugno alle 18.30 nella Hall del Lac. Parte del ciclo SciArt promosso dalla Fondazione Ibsa per la ricerca scientifica e dal Museo d’arte della Svizzera italiana, l’appuntamento vedrà Martínez in dialogo con la curatrice Barbara Casavecchia.
A Basilea ha ribattezzato l’istituto di Arte in ‘Art, Gender, Nature Institute’. Era necessario modificare il nome? Non bastava rivedere le attività?
Parliamo spesso della necessità di cambiare il nostro modo di agire: certo, come ha detto lei avremmo potuto semplicemente cambiare le attività mantenendo il nome, ma ho pensato che fosse importante che i cambiamenti iniziassero già a livello di formazione artistica. Non si tratta solo di cosa esponiamo nei musei, ma anche di come formiamo artiste e artisti che in futuro esporranno in quei musei.
In questo senso, è stato molto importante per tutti noi, non solo per me, dare questo nome. Naturalmente, queste nozioni potrebbero cambiare in futuro come team volevamo dire che in quel momento – poco prima della pandemia – era importante parlare di “Art, Gender, Nature” e forse tra cinque anni dovremo ricorrere ad altre parole. Ma è una sorta di bandiera che altre scuole e altre persone possono vedere.
Arte e natura sono concetti che troviamo spesso insieme. Il genere, invece, può apparire un po’ come un intruso: in che misura completa la riflessione?
Penso che il tema generale sia il comportamento umano. Judith Butler e altre persone sostengono che il genere non è una questione di come si nasce, ma di come ci si comporta, di come si ‘performa’ il proprio genere. Allo stesso modo, per me la natura è spesso trattata come un genere debole: abusata, ostacolata, schiavizzata. In un certo senso, i generi forti hanno approfittato di quelli deboli.
L’equazione tra genere e natura serve proprio a dire che non sono così distanti tra loro, che non intendiamo il genere in senso biologico, ma come una nuova possibilità di comportarsi, di relazionarci tra noi e con la natura. Una comprensione del comportamento che può cambiare le idee storiche del determinismo biologico. In questo senso, il genere non è solo quello che si può intendere comunemente, e l’arte – che è un comportamento con materialità, esperienza, magia, rituali – può contribuire molto a questo mondo nuovo. È come quando costruisci una casa: poni le prime pietre per costruire qualcosa di nuovo che ti fornisca riparo. Queste nozioni sono proprio quel tipo di pietre, sono inizi per lavorare verso qualcosa di nuovo.
In parte ha già risposto, ma come vede il rapporto tra arte e natura? Mi sembra di capire che ci sia una sorta di continuità.
Sì, ma penso anche che queste nozioni vengano prese dalla comprensione del senso comune. Dire “arte e natura” significa dire pace, libertà, democrazia. Puntiamo verso una nuova comprensione dell’esperienza del mondo. Una esperienza del mondo dovrebbe essere costruita su valori di coesistenza, sulla comprensione e il rispetto.
È davvero importante mettere l’arte al centro come forza che spinge molte nozioni che molte persone trovano problematiche, contro cui molte società stanno davvero combattendo, proprio per posizionare l’arte come qualcosa che ci spinge verso una vita migliore. Non c’è nient’altro oltre a questo.
Qual è quindi il “ruolo sociale” dell’arte? In quali situazioni dovremmo interrogare l’arte, e gli artisti e le artiste, e in quali invece rivolgerci ad esempio alla scienza?
La questione sulla quale l’arte può aiutarci molto si chiama polarizzazione. Produciamo un antagonismo che crea silenzi difficili da superare: non solo sembra che siamo sempre di più in completo disaccordo, ma anche che siamo incapaci di risolvere questo disaccordo senza ricorrere alla violenza. Questo dovremmo chiedere all’arte, perché sono convinta che l’arte possa aiutarci. L’arte e anche la scienza. E infatti arte e scienza sono sotto attacco: sono i primi ambiti che vengono tagliati, vediamo che non c’è interesse nello sviluppo della scienza, sia per quanto riguarda lo sviluppo di soluzioni concrete, ma sia per quanto riguarda la scienza come comprensione del reale e della vita oltre l’oscurantismo e il fanatismo.
Arte e scienza sono diventate molto buone amiche negli ultimi tre decenni: scienziate e scienziati chiamano artiste e artisti nei loro team di ricerca perché vogliono un’esperienza della scienza che sia più olistica, un po’ fuori dall’utilitarismo che il mercato sta imponendo anche alla scienza. Ci sono molte collaborazioni e sinergie, molte più di quanto la gente comune possa pensare.
Però ci sono state anche incomprensioni, no? Situazioni in cui arte e scienza vanno in direzioni opposte e si contraddicono.
No, io non ne ho mai incontrate. Penso che le persone siano rispettose, ma anche l’arte non possa contraddire la scienza: lavorano in modi completamente diversi che però coesistono molto bene. Nei miei 25 anni di lavoro nel campo, non ho mai incontrato nessun artista interessato a contraddire la scienza.
Lei ha messo in dialogo arte e scienza soprattutto su un tema, o meglio un ambiente: l’oceano. Può parlarci di questa esperienza?
Lavoro con l’arte sui temi marini da circa dodici anni. Collaboriamo molto con scienziati e biologi marini, e abbiamo lavorato su molte cose. Un campo molto importante è stata la protezione delle comunità costiere che, a causa del cambiamento climatico, vedono alzarsi il livello dell’acqua e rischiano di scomparire, come ad esempio alcune isole del Pacifico, come le Isole Marshall.
Abbiamo anche lavorato molto su qualcosa che la gente conosce meno, ma che è molto importante: il deep sea mining, le attività minerarie sottomarine. Molti governi si impegnano per proteggere questo ambiente dall’attività estrattiva, mentre altri governi vogliono procedere con questo tipo di estrazione, che è molto complessa e pericolosa.
Abbiamo anche lavorato con team scientifici che stanno ascoltando migliaia di ore di registrazioni del linguaggio delle balene, cercando di decifrare il linguaggio degli animali. Molti, molti progetti, ma sì, è un lavoro davvero interessante.
Possiamo dire che l’oceano è un mondo sconosciuto e che per esplorarlo abbiamo bisogno sia della scienza sia dell’arte?
Assolutamente. Quando abbiamo iniziato a lavorare su questo progetto, era un tema poco conosciuto: penso che creare consapevolezza sui problemi dell’oceano, e anche su come influenzano il resto dell’umanità e ognuno di noi, sia molto importante. La questione più ovvia sono i molti rifiuti e la plastica che finiscono nell’oceano. Ma prima di questo lavoro nemmeno io ero consapevole che le microplastiche sarebbero entrate nel corpo di esseri umani e di altri animali: pensavo che fosse qualcosa che sarebbe rimasto sulla superficie dell’acqua. Questo è un esempio più banale, ma è davvero importante, e penso che la gente voglia conoscere questi temi.
Ha citato il linguaggio delle balene. Oggi si parla molto di intelligenza artificiale, ma forse dovremmo estendere il nostro concetto di intelligenza guardando non solo alle macchine, ma anche ad altre specie viventi.
Non potrei essere più d’accordo. Molte persone stanno facendo ricerca su questo tema: il team di Alex Jordan al Max Planck Institute, il team di David Gruber a Boston e molti altri istituti di ricerca. Tutti cercano di sottolineare il fatto che l’intelligenza non è qualcosa che possiedono solo una o due specie, ma è diffusa tra tutte le specie. È una questione molto complessa, ma è davvero importante da capire che l’intelligenza non riguarda solo gli umani.
D’altra parte è inevitabile che, essendo noi umani, ci basiamo sulla nostra idea di intelligenza.
Sì, ha ragione. Ed è per questo che l’arte è così utile, perché l’arte ti può dare l’esperienza per capire cosa significa essere fuori da te stesso.
Nel XIII e XIV secolo, questa esperienza era chiamata mistica, ma è in realtà un’esperienza artistica. L’arte ha la prerogativa di comprendere che c’è qualcosa che va oltre la nostra capacità umana, che è davvero complesso, ma che possiamo afferrare attraverso i sensi.
L’arte è davvero importante, perché espande davvero i nostri limiti: come ha detto lei, siamo fatti in un certo modo ed è molto difficile per noi sfuggire a noi stessi. Ma quando siamo in ambienti creati da artisti, la nostra mente si immagina fuori da se stessa.
Stiamo parlando di esperienze universali. Però, come abbiamo detto all’inizio a proposito del genere, l’arte parte da identità particolari.
L’arte non ha bisogno di essere universale, eppure può essere molto rilevante, anche se specificamente ancorata e situata. L’Arte Povera, ad esempio, era un movimento molto specificamente italiano, ma è stato davvero importante per comprendere la natura. L’Arte Povera ha portato molto presto un’idea di natura che è molto potente, con mezzi molto semplici. Non si può dire che l’Arte Povera fosse un movimento universale, ma oggi, molti anni dopo, molte altre comunità comprendono perfettamente l’Arte Povera. Ci vuole tempo, non è automaticamente universale, ma diventa universale nel tempo, perché lo condividi sempre di più e arrivi a certe conclusioni.
Lo stesso con il movimento Gutai, ad esempio, in Giappone: è un movimento specificamente giapponese, ma oggi capiamo che questo movimento era impegnato in alcune delle questioni che oggi plasmano la nostra relazione con l’intelligenza non visibile nella natura, come le intelligenze batteriologiche o virali, il microcosmo della natura.
Dare importanza a identità culturali particolari non è quindi incompatibile con un approccio universale?
Per niente. Alcune persone intendono l’identità culturale come qualcosa di molto chiuso ma, naturalmente, ogni cultura nasce in relazione con tutto quello che la circonda. Noi la diffondiamo, la condividiamo, la comunichiamo e questo con molta più forza di 500 anni fa, quando la comunicazione tra comunità era molto più limitata.
Non vedo alcuna contraddizione tra essere sé stessi ed essere parte di un mondo più grande. Alcune persone, naturalmente, la vedono completamente diversamente, ma non penso che sia davvero possibile chiudere le culture in una bolla e preservarle in modo essenzialista. Non penso sia un approccio davvero produttivo, e del resto non penso che sia neanche davvero possibile riuscirci.