‘Per quanto devastante possa essere, il film ha dentro la speranza’ ci ha spiegato il regista Kamal Aljafari
Il cinema è e può essere tante cose: tra le molteplici dimensioni che questa forma d’arte può assumere, e che i dieci giorni del Festival ci permettono di esplorare, quella della memoria si sta rivelando particolarmente importante nel programma di quest’anno. Un film è essenzialmente una capsula del tempo, un dispositivo che conserva frammenti di realtà in vista di un futuro indefinito. I film di ieri, come quelli della Retrospettiva o come le opere scelte per rappresentare la carriera di artiste e artisti premiati, ci restituiscono tracce di realtà che furono; i film di oggi, al contrario, diventeranno testimonianze a disposizioni per il futuro di chi siamo in questo momento storico.
Poi arrivano opere che sfuggono a questa linearità temporale e mettono in discussione la memoria e la relazione tra passato e presente. ‘With Hasan in Gaza’ di Kamal Aljafari, presentato in questi giorni nel Concorso internazionale, è uno di questi film. Il regista palestinese ha ritrovato, esattamente un anno fa, dei filmati realizzati nel 2001 durante un viaggio nella Striscia alla ricerca di un uomo conosciuto un decennio prima. Proprio quella cassetta ritrovata per caso è riproposta nel suo film quasi inalterata nel montaggio. Il risultato è un’opera che contorce il tempo insieme alle nostre coscienze: osserviamo la Gaza del 2001, una Gaza ignara di quello che accade adesso, ma la osserviamo con una consapevolezza del presente che necessariamente ci proietta verso un futuro che è difficile immaginare. «Per quanto devastante possa essere, il film ha dentro di sé la speranza» ci ha spiegato il regista. Perché, come ha aggiunto rispondendo a un’altra domanda, questo film non parla di Gaza o, meglio, non parla solo di Gaza ma di tutta l’umanità. «Non possiamo separare le due cose, specialmente oggi».
Ritorniamo sulla genesi di ‘With Hasan in Gaza’. Come detto nel 2001 Kamal Aljafari, all’epoca studente di cinema a Colonia, era andato a Gaza e, accompagnato da una guida – l’Hasan del titolo –, cercava Abdel Rahim, un uomo che aveva conosciuto nel 1989 quando entrambi, ragazzi, erano detenuti in una prigione israeliana. L’idea era realizzare un progetto sul suo periodo di detenzione, ma il progetto venne dimenticato. Fino a un anno fa. «Volevo digitalizzare alcuni mini-DV e tra i nastri è saltato fuori quello con la scritta “Hasan in Gaza”. All’inizio non sapevo cosa fosse: quando l’ho guardato mi sono ricordato che sì, ero andato a Gaza nel 2001. Non avevo mai guardato quei nastri: li ho visti per la prima volta l’anno scorso, senza alcuna intenzione di farne un film».
Quella di lasciare il materiale originale così com’era è stata una scelta coraggiosa.
Quando ho iniziato a guardare, ho capito che ogni inquadratura aveva un valore: tutta Gaza è stata distrutta e questo non è un film normale per il quale si può scegliere tra le inquadrature. Ogni ripresa aveva un valore. Volevo inoltre mantenere la sensazione del viaggio che avevo fatto, di questo diario di viaggio. Ho deciso di mantenere il materiale com’era per questi motivi e perché, mentre lo guardavo, mi rendevo comunque conto che funzionava, che la struttura, come l’ho trovata sui nastri, era già buona. Non c’era bisogno di cambiarla.
Il film può essere concepito come un monumento a quella che era Gaza?
È un documento di come viveva la gente allora. È una testimonianza di una condizione di vita in quelle circostanze, sotto occupazione, sotto assedio, già da molto tempo. Circostanze continuate, in modi diversi, fino a due anni fa. C’è qualcosa di epico nel modo in cui guardiamo oggi quelle immagini: le vedi e ti chiedi “cosa è successo a queste persone?”. Sappiamo che il posto è stato distrutto, sappiamo che molte persone sono state uccise. Il contesto, i tempi attuali, ha una grande influenza su come guardiamo il film oggi.
Il film inizia mostrandoci subito le immagini di Gaza. Solo dopo un po’ capiamo che risalgono a oltre vent’anni fa. Perché non specificarlo all’inizio?
Non ho sentito che fosse necessario. E poi è scritto nella sinossi: dirlo di nuovo avrebbe in qualche modo tolto il mistero di tutto il film. Quando inizi a guardare ti chiedi: quando è stato girato questo? Perché ha la forma della vita dopo la morte, come se Gaza esistesse ancora nella nostra immaginazione. Dare le date non avrebbe aiutato. Sarebbe stato contro la poesia.
A proposito di poesia: come detto niente montaggio, ma si è lavorato, e molto, sulle musiche e sul sonoro, inserendo anche testi poetici.
Sì, questi nuovi elementi, che sono la musica e il suono, in qualche modo hanno colmato il divario tra passato e presente, in un modo che non è diretto. Il film funziona su diversi livelli e più con i sentimenti che con la comprensione diretta.
Avevate filmato Gaza nel 2001 con lo sguardo del 2001. Riguardare quelle immagini nel 2024, e un anno dopo il film, che impressione vi ha fatto?
Trovare il materiale in questo momento particolare l’ha fatto diventare il film che è oggi. Il fatto che molte cose sono già successe da allora e che quei luoghi sono completamente distrutti ti fa davvero guardare tutto come in una retrospettiva. Quando guardi, emotivamente colleghi passato e presente: si vede già l’apparato di oppressione, si vedono le condizioni di vita. Per me guardare questo film è stato molto doloroso perché si vede che questa sofferenza va avanti da tempo, da troppo tempo. Quelle scene con i bambini che mi chiedono di filmarli sono così dolorose da guardare: sono solo bambini che vedono una telecamera e vogliono essere fotografati. Cosa è successo a questi bambini? Adesso devono avere sui trent’anni e non si sa che fine abbiano fatto.
A metà film mi sono chiesto se a un certo punto avremmo visto la distruzione attuale di Gaza. Poi mi sono detto che sarebbe stato sbagliato.
Onestamente non l’ho trovato necessario. Dovevo essere molto radicale nel mantenere questo solo come documento. Perché anche Gaza, nonostante tutto quello che sappiamo, produce speranza. Quindi per quanto devastante possa essere, il film ha dentro la speranza. Aggiungendo qualcosa di oggi, la miseria di oggi e la distruzione di oggi, in qualche modo avresti ucciso il film. Avresti ucciso la speranza dentro questo film.
Come definireste questa speranza, considerando che anche nel 2001 la situazione era già terribile?
Il film mostra quello che c’era prima, quello che ha portato alla catastrofe totale. Quello che intendo con speranza è vedere tutte queste persone vive. Sì, la situazione non era normale, era già la sofferenza di chi vive sotto occupazione. Guardando questo film puoi vedere il contesto, la storia. Penso che questo sia l’aspetto più forte del film: si spiega da solo. E questo è qualcosa che il cinema può fare. E che può fare anche il passare del tempo: se avessi fatto questo film allora sarebbe stato diverso. Oggi ha un altro significato.
Cosa può fare un film?
Può condividere la nostra vita, cercare di comunicare con gli altri, rendere omaggio a un posto, onorare i morti. Ma non posso cambiare la realtà facendo un film: è tutto nelle mani dei governi, che per me ci hanno davvero tradito e sto parlando dei governi occidentali. Hanno davvero tradito l’umanità e hanno tradito il loro stesso popolo, perché oltre agli Stati Uniti anche la Germania e l’Italia sono complici delle uccisioni in corso perché stanno ancora dando armi a Israele. La Germania ha finalmente deciso di non farlo più, ma dopo cosa?
Il film parla di Gaza o dell’umanità?
Per me di entrambi, è la stessa cosa. È Gaza e umanità. E non possiamo separare le due cose, specialmente oggi.