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Tornare all’Illuminismo per superare il tribalismo woke

La filosofa Susan Neiman sull’importanza di tornare ai valori di universalismo e giustizia

22 settembre 2025
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C’è poco da discutere, sull’esito delle presidenziali americane del 2024: Donald Trump non solo ha vinto in tutti gli stati in bilico, ottenendo una solida maggioranza (312 a 226) dei cosiddetti “grandi elettori” che son quelli che determinano chi sarà il presidente, ma ha anche ottenuto, e di nuovo con ampio margine, la maggioranza del voto popolare, cosa che al Partito repubblicano non accadeva dal 2004.

Più complicato capire i motivi, di questa vittoria: la situazione economica ha certamente giocato un ruolo, così come il ritiro di Biden a pochi mesi dalle elezioni; abbiamo poi la capacità di Trump di raggiungere i giovani uomini sfruttando podcast e altre piattaforme digitali, le campagne contro gli immigrati, la polarizzazione dei media e via scorrendo il lungo elenco di spiegazioni arrivate negli ultimi mesi.

Abbastanza in alto in questo elenco troviamo il ‘woke’, il movimento di denuncia delle ingiustizie legate a razza, genere e altre forme di discriminazione con il quale i progressisti – negli Stati Uniti e non solo – si sono identificati. Sbagliando, secondo la filosofa Susan Neiman che venerdì ha aperto il festival Endorfine con una conferenza, moderata da Lorenzo Erroi, dal titolo un po’ furbo “Perché ha vinto Trump?”. Furbo perché, come Neiman ha precisato durante l’incontro, il rifiuto del movimento ‘woke’ non è certamente l’unico fattore. E forse è anche errato inquadrare il tema solo guardando agli Stati Uniti: il suo saggio ‘La sinistra non è woke’ (prima edizione nel 2023, quando Trump era solo un candidato, per quanto favorito, alle primarie repubblicane) ha infatti raccolto consensi (e critiche) un po’ ovunque, con traduzioni in farsi e in coreano. Un successo che – come ci ha spiegato prima della conferenza – ha sorpresa la stessa autrice.

Una teoria reazionaria con il cuore a sinistra

Da filosofa abituata a cercare la chiarezza, Susan Neiman è partita dalla definizione di ‘woke’. O meglio da una possibile definizione: parliamo infatti di un movimento complesso e contraddittorio che, per essere discusso va necessariamente ricostruito – le critiche al libro riguardano principalmente questo punto, l’aver travisato la vera natura di questo movimento.

Un primo punto fermo è che il ‘woke’ non è la ‘cancel culture’, la richiesta di escludere individui o istituzioni colpevoli di comportamenti offensivi. «La ‘cancel culture’ è parte di ogni movimento politico e certamente la destra di Trump è più aggressiva di quanto lo siano mai stati i ‘woke’» ha spiegato durante l’incontro.

Discorso simile per quel “senso di superiorità morale”: è una accusa ricorrente a chi si identifica nelle istanze ‘woke’, ma è di nuovo una cosa che si può trovare ovunque. A caratterizzare il ‘woke’, secondo Neiman, è una radicale contraddizione “tra le emozioni che lo animano e le idee teoriche su cui si fonda”. Le emozioni sono quelle tipiche della sinistra: empatia per le persone ai margini, indignazione per le ingiustizie e determinazione nell’affrontare i torti del passato. Le teorie di riferimento sono prese da pensatori di destra, se non apertamente nazisti, come Carl Schmitt e Martin Heidegger, o dalle idee problematiche come Michel Foucault.

In particolare, sono due i valori – le cui radici affondano nell’Illuminismo – che il movimento ‘woke’ rifiuta. Il primo è l’universalismo, l’idea che, al di là delle differenze tra i vari individui e le loro culture e tradizioni vi sia una connessione tra tutti gli esseri umani: il movimento ‘woke’ tende invece a insistere sul non poter confrontare esperienze personali diverse e sui legami che legano una persona alla minoranza di cui fa parte. La giustizia è la seconda idea progressista messa in discussione dal movimento ‘woke’ che tende a ridurre tutte le relazioni tra gruppi diversi con diseguaglianze di potere.

Professoressa Neiman, il suo libro è una interessante ricostruzione delle politiche identitarie…

In realtà non uso l’espressione “politica identitaria”. Penso sia il termine sbagliato perché presuppone ciò che dovrebbe essere dimostrato: che le nostre identità siano determinate da razza e genere. Non lo sono. Le nostre identità sono composte da molti elementi. Tutti credono di capire cosa si intenda con “politica identitaria”, ma è il concetto sbagliato.

Sì, lei preferisce il termine ‘tribalismo’ per riferirsi a questa negazione dell’universalismo e dell’Illuminismo. Illuminismo che, come lei mostra nel libro, ha cercato di non escludere e non opprimere…

No no, ha fatto ben più di questo. Fu proprio l’Illuminismo a elaborare il concetto di eurocentrismo e a dire che eravamo troppo concentrati su idee e pregiudizi europei e che dovevamo imparare da altre culture. Quando sento le critiche dei ‘postcolonial studies’, mi chiedo se abbiano mai aperto un libro di filosofia illuminista, o anche solo il ‘Candide’ di Voltaire – che raccomando sempre di leggere perché è facile e breve.

La cosa davvero sorprendente per me è che la maggior parte dei filosofi illuministi argomentò sia contro la schiavitù sia contro il colonialismo, definendoli mali. Dire che sono responsabili per schiavitù e colonialismo è come dire che io sono responsabile per Donald Trump. Perché non lo sono: scrivo, parlo, sono attiva in vari modi contro quello che penso sia forse la cosa peggiore che sia accaduta al mondo. Dire che siccome sono cittadina americana sono responsabile per Trump è come dire che i filosofi illuministi sono responsabili per schiavitù e colonialismo, visto che si opposero attivamente a entrambi.

Viviamo però in una società molto più diversificata di quanto Hume o Voltaire potessero immaginare. L’universalismo dell’Illuminismo originale non ha bisogno di un aggiornamento?

Questa era già una discussione tra Kant e Herder alla fine del XVIII secolo. Certo, oggi viaggiamo e le persone si muovono a ritmi e in numeri che allora non erano possibili. A volte si leggono commenti di filosofi illuministi che sembrano problematici dal nostro punto di vista perché ricavavano le loro informazioni principalmente dai libri. Ed erano tutti sessisti, cosa che non capisco del tutto perché credevano nella piena umanità di persone di popoli completamente diversi – i persiani di Montesquieu, i nativi americani algonchini di Lahontan, i sudafricani di cui parlava Diderot. Finché erano uomini, erano considerati pienamente capaci di essere cittadini ma stranamente non applicarono lo stesso principio alle donne.

Il punto è che le differenze culturali sono fantastiche. Quando la gente sente la parola “universalismo”, a volte ha nelle orecchie l’eco postcoloniale “vogliono che tutti siano uguali e che tutti siano europei”. È sciocco. Le differenze culturali sono parte di ciò che rende il mondo bello e interessante e dovrebbero essere celebrate. Ma dobbiamo distinguere tra cultura e politica. Le differenze culturali sono meravigliose, ma a livello politico, la rivendicazione universalista è semplicemente che ogni essere umano ha diritto alla piena dignità.

Foucault può essere considerato il grande antagonista dell’Illuminismo. Tuttavia la sua demistificazione di concetti come quello di giustizia può essere utile: dopotutto, è difficile pensare di raggiungere la giustizia senza rendersi conto che spesso dietro questa idea ci sono squilibri di forza?

È curioso: questa è la critica più frequente che ho ricevuto sul libro. Tutti pensano che non sia stata corretta con Foucault e vogliono difenderlo. Mi sono quindi detta che ok, forse devo leggere di più, forse così lo capisco meglio. Ma ogni volta che sono tornata a leggerlo, l’ho trovato peggiore.

Ha fatto un lavoro interessante sulla pervasività del potere: devo riconoscerne la genialità, quando scrisse nel 1979 le lezioni sulla biopolitica che sono la sua analisi del neoliberalismo quando il neoliberalismo quasi non esisteva. Fu molto preveggente nel descriverlo, ma non lo critica. Trova volgare dire se è a favore o contro qualcosa. Mi dispiace, ma penso che i filosofi debbano a un certo punto prendere posizione. Sei a favore del neoliberalismo e della riduzione di tutte le nostre funzioni a funzioni economiche? È qualcosa che vogliamo continuare o cambiare? Foucault non risponde mai a questa domanda. Gli studiosi di Foucault ne discutono ancora senza accordo. La filosofia deve fornire quello che Kant chiamava “orientamento nel pensiero”: non devi dare risposte, ma mi sembra ragionevole aspettarsi un orientamento.

Questo come si traduce nella politica? Può fare un esempio?

George W. Bush affermava di attaccare l’Iraq per promuovere la democrazia. Fui sorpresa di vedere quanti tedeschi furono ingenui, prendendolo alla lettera: nessuno nella sinistra americana lo fece. Sapevamo tutti che mentiva e che cercava di stabilire l’egemonia regionale, controllare il petrolio e distogliere l’attenzione da quella che allora sembrava la peggiore presidenza americana della storia. Bush cercava il potere ma parlava di giustizia e democrazia. Se leggi abbastanza Foucault, puoi convincerti che tutti siano come George W. Bush: chiunque affermi di fare qualcosa per democrazia o giustizia è semplicemente un ipocrita che cerca di ingannarti. Con Trump abbiamo una situazione interessante perché a lui non importa nulla della legittimità morale. Dice semplicemente: “Sono più forte, farò questo”.

Chi è peggio? Bush che finge di avere a cuore la giustizia o Trump che si toglie la maschera?

Me lo chiedo spesso. C’è un detto francese, “l’ipocrisia è il complimento che il vizio rende alla virtù”. Credo sia un’affermazione profonda e una parte di me vorrebbe dire che è meglio che ci sia almeno questo ideale della virtù. Ma molti si rendono conto che è solo ipocrisia e penso che questa sia una delle ragioni per cui hanno rieletto Trump: “È sincero, è autentico, non mente come gli altri politici”.

In un contesto sociale e politico che premia Trump e il suo aperto rifiuto di empatia, solidarietà e giustizia, è pensabile tornare ai valori dell’Illuminismo?

Non so cos’altro potremmo fare. Andare avanti concentrandosi sui legami tribali, credere che le uniche relazioni genuine tra persone siano tribali, e quindi i nostri unici obblighi siano verso la nostra tribù… è questo che ci porta all’espulsione di bambini in Paesi dove non sono mai stati, o di adulti in Sud Sudan. Non dico che ci siamo già arrivati, anche se la Gran Bretagna voleva deportare i richiedenti asilo in Ruanda.

Non dico che i Paesi europei debbano accogliere un numero infinito di immigrati. Dico che quello delle migrazioni è un problema internazionale che deve essere risolto da persone che capiscono che è un problema di tutti, che capiscono che è un tema universale e non tribale. Lo stesso discorso vale per la crisi climatica: può essere risolta solo se superiamo il tribalismo.