L’informazione dovrebbe essere uno strumento di coscienza e responsabilità, ma troppo spesso, soprattutto da parte di certi giornalisti e opinionisti, assistiamo a un fenomeno pericoloso: la sistematica demonizzazione di Israele, che finisce per alimentare, legittimare e normalizzare nuove forme di antisemitismo. Non si tratta di una critica politica legittima, che è sempre possibile in una democrazia, ma di un attacco ideologico, costruito su un vocabolario distorto: “genocidio”, “pulizia etnica”, “regime di apartheid”, “colonialismo”, “Stato razzista”. Etichette forti, ma vuote di contenuto quando si guarda ai fatti. Israele viene sistematicamente accusato a prescindere, qualunque cosa faccia. Le sue azioni difensive sono trasformate in aggressioni, la sicurezza in oppressione, il diritto a esistere in una colpa originaria. I morti israeliani sembrano sempre meno gravi, meno reali, meno degni di essere raccontati. Persino il 7 ottobre, giornata di massacri, stupri, bambini bruciati vivi, è stato presentato da alcuni come una “reazione” anziché come un’atrocità assoluta. Questo rovesciamento morale, alimentato da narrazioni unilaterali, ha conseguenze devastanti. Ciò che non viene detto è fondamentale. Non si ricorda che Israele si è ritirato completamente da Gaza nel 2005 e che in cambio ha ricevuto 20’000 razzi. Non si dice che ogni proposta di pace, e ce ne sono state molte, è stata rifiutata dalla leadership palestinese, spesso seguita da attentati. Non si cita, che Hamas ha come obiettivo statutario la distruzione di Israele e non la convivenza. Non si parla del fatto che gli arabi israeliani godono di pieni diritti civili, votano, siedono in Parlamento, sono giudici, medici, docenti. Non si spiega, che l’esercito israeliano avvisa i civili prima dei bombardamenti, mentre i gruppi terroristici li usano come scudi umani. E non si sottolinea, che intorno a Israele operano almeno cinque organizzazioni terroristiche attive, coordinate in molti casi da potenze regionali ostili, con l’obiettivo dichiarato di distruggere lo Stato ebraico. C’è poi un’altra questione, che dovrebbe far riflettere: Israele è l’unico Paese in guerra, che consente ai giornalisti stranieri di lavorare liberamente dal suo territorio, con accesso a fonti, testimonianze, pluralismo. È una democrazia, che accetta anche la critica più aspra. Altri regimi, ben più repressivi, non tollerano neppure la presenza dei media. Ma, nonostante ciò, è proprio Israele a essere al centro ossessivo dell’attenzione. Perché? Perché è l’unico bersaglio “sicuro”, dove il giornalista non rischia nulla. Un paradosso: Israele paga il prezzo della propria libertà. Chi scrive per informare ha una responsabilità enorme. Non può manipolare, non può sacrificare la realtà sull’altare dell’ideologia. Israele, come ogni Stato, può e deve essere criticato. Ma va giudicato non per ciò che certi giornalisti vogliono che rappresenti. Quando si cancellano i fatti, si semina odio. E, quando l’odio cresce, la prima vittima è sempre la verità. Conservo però la speranza, che questi giornalisti comprendano il danno profondo, che stanno contribuendo a infliggere alla società, e che abbiano il coraggio di fare autocritica. Non è mai troppo tardi per scegliere la responsabilità e l’onestà intellettuale.