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Realtà e retorica del debito pubblico

Grover Norquist & friends
(Keystone)

Una voce ricorrente denuncia l’“esplosione” della spesa pubblica, l’“espansione fuori controllo” dello Stato e l’“intollerabile” livello del debito cantonale. Ma al di là dei toni allarmistici, ciò che si legge tra le righe è un’impostazione ideologica rigida e selettiva. È utile ricordare che il debito pubblico del Canton Ticino, pur in crescita negli ultimi anni, resta in proporzione decisamente contenuto sia rispetto al Prodotto interno lordo cantonale sia nel confronto internazionale. E questo senza contare i beni patrimoniali di proprietà dello Stato di cui noi e le generazioni future beneficiamo. Non c’è nessuna crisi del debito in vista.

A preoccupare non è il debito pubblico in sé, ma piuttosto il modo in cui viene narrato e strumentalizzato. La retorica del “buon padre di famiglia” – secondo cui lo Stato dovrebbe comportarsi come un’economia domestica e “non spendere ciò che non ha” – è economicamente infondata, e la storia economica del Cantone Ticino è lì a dimostrarlo. Lo Stato non è una famiglia: può (e talvolta deve!) indebitarsi per affrontare bisogni collettivi, sostenere la domanda interna, finanziare servizi pubblici, contrastare le disuguaglianze, predisporre una politica industriale volta a preparare la transizione energetica. A differenza del buon padre (e anche della madre) di famiglia, la spesa pubblica orientata alla crescita genera reddito aggiuntivo e, ampliando la base imponibile complessiva, produce gettito fiscale. Negare questa funzione significa ridurre lo Stato a un ruolo residuale, salvo invocarlo, come succede puntualmente, nei momenti di crisi.

Non è un caso che certe invettive contro la spesa pubblica sembrino riecheggiare toni e logiche ben noti Oltreoceano. Negli anni 90, Grover Norquist, stratega del partito repubblicano americano e fervente promotore del ridimensionamento statale, dichiarava: “Non voglio abolire il governo. Voglio semplicemente ridurlo a tal punto da poterlo trascinare in bagno e annegarlo nella vasca da bagno”. È l’immagine brutale (e volgare) della strategia detta Starving the Beast – “affamare la bestia” – secondo cui si devono ridurre le entrate dello Stato (attraverso tagli fiscali) per poi lamentarsi del fatto che non ci siano fondi per i servizi pubblici, e così giustificarne lo smantellamento. È la politica delle “casse vuote”, o dello “Stato povero”, che dagli anni Novanta in poi orienta le strategie dei partiti che hanno fatto proprio il dogma liberista.

Se si vuole discutere seriamente di spesa pubblica, allora sarebbe utile chiedere: quali spese? Quali investimenti pubblici? Per quali beneficiari? Con quale visione di società? È questo il dibattito da rilanciare, evitando le scorciatoie ideologiche che invocano uno Stato “più snello”, ma solo dove non tocca interessi consolidati.

A supporto di una visione più realistica e meno ideologica, basta guardare ai fatti: le valutazioni delle agenzie di rating internazionali raccontano una storia ben diversa da quella degli apocalittici. Per il 2025, l’agenzia Moody’s assegna al Canton Ticino un voto Aa2 con outlook stabile, riconoscendo una gestione prudente del debito e una base economica capace di reggere anche shock esogeni, come dimostrato durante la pandemia (si veda il rapporto di Moody sul sito del Cantone). Sebbene segnali alcune criticità, l’agenzia sottolinea l'affidabilità del Cantone e la sua capacità di accedere ai mercati finanziari a condizioni favorevoli.

Il vero nodo, però, sono le fragilità strutturali dell’economia locale: bassi salari, dumping, forti disuguaglianze, dipendenza dal lavoro frontaliero e indici di povertà superiori alla media nazionale. Fragilità che premono sulla spesa sociale, senza la quale il basso livello dei salari sarebbe insostenibile. Un evidente sostegno pubblico all’economia privata che, come sottolineava Daniel Ritzer nel suo editoriale apparso su laRegione del 16 aprile 2025, si ritrova nei conti dello Stato, senza per questo essere riconosciuto né tanto meno apprezzato.

In questo contesto, sempre più caratterizzato da derive protezionistiche sostenute da politiche tariffarie aggressive, rispondere con il rilancio di politiche liberiste tutte volte alla deregolamentazione del mercato, a ulteriori sgravi fiscali “salvifici” e alla compressione della spesa e dell’occupazione pubblica, è del tutto controproducente e autolesionista. Al protezionismo non si risponde con il liberismo, dato che si tratta di due facce della stessa medaglia. Infatti, la politica protezionistica inaugurata da Trump è una risposta agli effetti delle politiche liberiste sulle bilance commerciali degli anni della globalizzazione. Lo Stato, per contro, deve rafforzare il proprio ruolo come regolatore e investitore, soprattutto nei servizi pubblici, nell’innovazione e nel sostegno ai redditi più bassi. Più concretamente, come sottolinea Thomas Piketty su la Repubblica del 17 aprile 2025 con riferimento alle terapie dell’Unione europea in risposta all’attacco degli Stati Uniti, se si vuole evitare un’agonia lenta dell’economia europea, “abbiamo bisogno soprattutto di investimenti pubblici, nella ricerca, nella sanità, e dobbiamo inventare nuove forme di governance nel settore digitale per controllare i grandi gruppi privati”. Una strategia che sembra del tutto alla portata del nostro Cantone.

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