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Nel nome del padre (di famiglia)

(Depositphotos)
21 maggio 2025
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È ormai diventato un vero e proprio tormentone: l’ente pubblico dovrebbe essere come un buon padre di famiglia, che fa il passo secondo la gamba, non investe se i soldi non li ha, si attiene ai conti in pareggio (o, meglio ancora, in attivo). Un recente intervento su queste colonne degli economisti Spartaco Greppi e Christian Marazzi ha di nuovo acceso la miccia metaforica di questo mantra del mondo economico, imprenditoriale e di chi lo rappresenta politicamente, dal centro alla destra. Nelle ultime settimane si sono susseguiti gli interventi di chi ha rifilato, in un modo o nell’altro, patenti di irresponsabilità a economisti peraltro riconosciuti e autorevoli, per il semplice fatto che stando alla loro concezione delle priorità e delle emergenze sociali, sul piano strettamente economico appare necessario il ricorso a investimenti e interventi strutturali che possono anche portare, in maniera controllata, a un rosso in bilancio. Una scelta che compie, andrebbe ricordato, un qualsiasi padre di famiglia (anche buono) quando compra l’auto nuova ricorrendo al leasing o quando fa un’ ipoteca per l’acquisto della casa. Ma no, il padre nostro del laicissimo mondo dell’economia non è questo, ma quello che non transige sulle spese pubbliche (anche quelle fatte oggi per i figli) e si mette a pregare ogni giorno stiracchiando retoricamente una similitudine che francamente è giunta al limite dello stucchevole. Se provassimo però, solo per un momento, a tener buona l’immagine, se volessimo tutti (che lo si sia o no) considerarci padri di famiglia sul modello di chi ci invita a esserlo, ecco che ci sarebbe davvero di che rimanere sconcertati. Sì, perché essere buoni padri (e diciamolo, anche madri) di famiglia, da che mondo è mondo, significa prima di ogni implicazione finanziaria anzitutto provare (senza ricette, senza certezze) a dare ascolto e prestare attenzione ai figli, per i figli.

Una nota pediatra ed educatrice francese, Françoise Dolto, ha ricordato più volte nei suoi libri che un “dovere” dei genitori nei confronti dei figli sarebbe quello riassumibile in una semplice formula: “Di’ quello che fai e fa’ quello che dici”. Senza voler istruire alcun processo sui comportamenti privati di chicchessia, ma restando nell’ambito delle similitudini: possiamo affermare che chi sostiene che lo Stato debba essere un buon padre di famiglia sta mostrando alla cittadinanza una particolare sensibilità anche nel darne l’esempio? Tutti questi campioni di virtù liberale (e liberista) stanno facendo quello che dicono? Se si battono in nome del “primanostrismo” auspicando la chiusura delle frontiere, perché continuano ad assumere frontalieri? Se inneggiano agli interessi nazionali in nome della coesione, perché sostengono gli attacchi al servizio pubblico e parapubblico? Se si dicono strenui sostenitori di ogni iniziativa che pensi al bene delle prossime generazioni, perché propongono tagli nel campo della formazione e dell’inclusione dei giovani che vivono oggi in questo nostro Paese, nella scuola e nel mondo del lavoro? Se hanno così a cuore, come dicono, il futuro dei propri figli perché stanno abbandonando ogni attenzione verso la sostenibilità, i problemi dell’ambiente, l’emergenza climatica, su cui i giovani mostrano palesemente di essere allarmati?

Si potrebbe continuare a lungo con questo triste elenco di domande retoriche, che fatalmente finiscono nel baratro della contraddizione programmatica, nell’uso totalmente strumentale di una presunta preoccupazione per la generazione dei figli. Quel che appare tristemente evidente è che ci si trova davanti a degli interlocutori che dicono una cosa e ne fanno un’altra e che con una mefitica dose di cinismo, fra uno sgravio e l’altro, perseguono un progetto politico-economico che produrrà ulteriori drammatiche disparità fra ricchi e poveri. Non proprio quello che auspica chi invoca il nome del padre.

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