Contando sul silenzio internazionale, giovedì 29 maggio il Ministero della difesa israeliano ha confermato che il governo ha approvato la costruzione di 22 nuovi insediamenti in Cisgiordania. Nel suo comunicato, il Ministero della difesa lo ha definito “un passo che cambierà il volto dell’area e modellerà il futuro degli insediamenti per gli anni a venire” e ha aggiunto che “i nuovi insediamenti si collocano tutti all’interno di una visione strategica a lungo termine, il cui obiettivo è rafforzare la presa israeliana sul territorio, evitare la creazione di uno Stato palestinese e creare le basi per il futuro sviluppo degli insediamenti nei prossimi decenni”. Dall’inizio dell’anno il governo ha inoltre approvato la realizzazione di 16’820 unità abitative nei circa 150 insediamenti approvati precedentemente, corrispondenti all’insediamento di almeno 50’000 coloni che andranno ad aggiungersi ai 500’000 già in loco. Israele sta dunque consolidando illegalmente la parte del suo bottino di guerra del 1967 chiamata Cisgiordania, mentre la Striscia di Gaza viene preparata per l’arrivo dei nuovi coloni. E secondo il ministro delle Finanze non si tratterà più di occupazione, ma di sovranità. Almeno a parole, la comunità internazionale chiede che i confini tornino ad essere quelli di prima della guerra del 1967 e che uno Stato palestinese possa diventare realtà. Anche la Svizzera, tramite il Dfae, fa sapere che “si impegna per la creazione di uno Stato palestinese vitale, contiguo e sovrano, con Gerusalemme Est come capitale e basato sui confini del 1967”. Magari l’impegno ci sarà stato, ma il risultato, dopo 58 anni, è molto deludente: la parte essenziale di quello Stato che si voleva “contiguo” è disseminata di enclavi israeliane (circa 170) in continua crescita, mentre i soprusi dei coloni e dello Stato israeliano hanno da tempo superato i limiti del sopportabile, permettendo così la realizzazione del cinico “piano decisivo per Israele” del ministro Smotrich in cui si legge: “Ma a un certo punto, arriverà il momento in cui la frustrazione supererà la soglia della disperazione e porterà alla riconciliazione e a una rinnovata comprensione che la loro causa non ha alcuna possibilità: semplicemente non si realizzerà”. In Israele c’è chi non è d’accordo con la politica del governo, ma sono in pochi. Il perché ce lo spiega Sarah Parenzo, che la realtà israeliana la vive da due decenni: «Non si tratta solo del lavaggio di cervello mediatico al quale peraltro gli israeliani sono sottoposti quotidianamente, bensì di un’educazione e un indottrinamento che cominciano in età scolare e che richiederanno molto tempo per venire sradicati anche qualora ve ne sarà la volontà». Per dare voce a chi, dall’interno, ha una reale possibilità di reagire, anche la piccola Svizzera ha il dovere morale di manifestare il proprio dissenso. Invito dunque a sostenere l’appello del Consiglio di Stato rivolto a Berna affinché rompa il lungo silenzio sottoscrivendo la petizione di naufraghi.ch su Campax.