Oltre alle bombe, a Gaza uccide anche la fame: già a inizio maggio l’Oms contava 57 bambini morti di fame, mentre l’ufficio stampa governativo della Striscia ha parlato di 326 persone morte per malnutrizione o mancanza di medicinali. Morti che si aggiungono alle oltre 54’000 persone, di cui almeno 18’000 bambini, uccise direttamente dall’esercito israeliano dopo il 7 ottobre 2023. Scuole, ospedali, tende di sfollati: le bombe dell’Idf, prodotte in Europa e Stati Uniti, non risparmiano nessuno. Nei prossimi mesi si prospetta una carestia che potrebbe portare alla morte di 14’000 bambini sotto i 5 anni di età. Eppure gli aiuti sono lì, a pochi chilometri da quei bimbi affamati. Israele non li fa entrare, se non con il contagocce. D’altronde il piano era stato annunciato fin dall’inizio: il 9 ottobre 2023, Yoav Gallant, l’allora ministro della Difesa israeliano su cui oggi pende un mandato d’arresto della Cpi, affermava di aver ordinato “un assedio completo” e il blocco di elettricità, cibo e benzina verso la Striscia. “Stiamo combattendo animali umani e ci comporteremo di conseguenza”, continuava. Il 3 marzo scorso Itamar Ben-Gvir, ministro per la Sicurezza nazionale, suggeriva di “bombardare tutti i depositi di aiuti” a Gaza. Oggi si oppone strenuamente all’entrata di cibo e medicinali, anche nelle quantità irrisorie descritte come “una goccia nell’oceano” dal sottosegretario Onu per gli Affari umanitari, Tom Fletcher. L’ex parlamentare israeliano Moshe Feiglin sostiene invece che “ogni bambino, ogni neonato a Gaza è un nemico”, concludendo che “non un singolo bambino deve rimanere [nella Striscia di Gaza]”. Nel frattempo, dopo 19 mesi di complicità in un genocidio acclarato, diversi governi europei minacciano finalmente sanzioni contro Israele. Il Regno Unito ha sospeso i negoziati commerciali in corso con Tel Aviv, pur continuando a esportare componenti di jet F-35 verso lo Stato ebraico. L’Ue, principale partner commerciale di Israele, ha votato per una revisione dell’accordo di associazione con Tel Aviv al fine di stabilire se stia commettendo violazioni dei diritti umani (ci si pone ancora la domanda!) che comporterebbero una sospensione del trattato. Persino il governo tedesco sta valutando una possibile interruzione dell’invio di armi a Israele. “Too little, too late” direbbe qualcuno, ma qualcosa si è mosso. Non in Svizzera: malgrado le recenti pressioni, la parola “sanzioni” non ha neanche attraversato la mente di Cassis e colleghi. A dire il vero nemmeno la parola “condanna”. Il Consiglio federale si è limitato a stanziare 20 milioni di franchi per varie organizzazioni umanitarie “che operano a favore della popolazione palestinese”. Gesto ammirevole, peccato che gli aiuti non entrino. Fletcher è stato chiaro: migliaia di camion sono pronti al confine con la Striscia, manca solo l’ok di Israele. Manca anche la volontà politica del resto del mondo di costringere Netanyahu a lasciarli passare. Evidentemente i rapporti economici tra Svizzera e Israele sono troppo floridi, come la stretta collaborazione militare tra la Confederazione ed Elbit Systems, principale azienda privata che fornisce armi all’esercito israeliano. D’altra parte, la Svizzera era già stata uno degli ultimi Paesi occidentali a rompere i rapporti con il Sudafrica dell’apartheid. Anche in quel caso, oggi si sa, c’era troppo da guadagnare. Un giorno studenti e studentesse leggeranno del Genocidio di Gaza sui libri di storia. Ci sarà scritto che li abbiamo lasciati morire di fame.