Quante sono le donne durante i negoziati per la pace? Non sono necessarie ricerche scientifiche. Basta interpellare ChatGPT e consultare le immagini fotografiche della composizione dei tavoli dei negoziati che riguardano le centinaia di conflitti del nostro tempo. E non si tratta soltanto dei negoziati per la pace, ma anche di negoziati per obiettivi più circoscritti, come lo scambio di prigionieri, la protezione della popolazione civile, l’organizzazione di corridoi umanitari e simili. Orbene, nella stragrande maggioranza dei casi riuniti attorno a questi tavoli si vedono esclusivamente degli uomini. Peggio, quando ci sono donne compaiono nelle file arretrate, nel ruolo di segretarie, ciò che sottolinea anche fisicamente che il ruolo femminile è soltanto marginale. Ciò che possiamo constatare mediante questo approccio superficiale ed empirico viene confermato da numerose ricerche scientifiche: questi negoziati esclusivamente “maschili” raramente sfociano in risultati completamente positivi e per di più, anche quando vi riescono, spesso questi risultati non resistono nel tempo.
Il Geneva Graduate Institute, nell’ambito di una ricerca intitolata ‘Broadening participation process’ ha analizzato il ruolo femminile e di altri gruppi durante 40 processi di pacificazione e di transizione dal conflitto alla pace: ebbene, le probabilità di raggiungere un accordo e le probabilità di messa in opera e di resistenza di questo accordo furono accresciute in misura sensibile, quando ai lavori erano state associate anche rappresentanze femminili. Risultato analogo secondo le statistiche della Reimagining Peacemaking: ‘Women’s roles in peace process’: quando rappresentanti femminili partecipano all’elaborazione di un accordo di pace, oppure alla sua redazione, oppure alla sua messa in opera, le probabilità di durata di più di due anni aumentano del 20%, e le probabilità di durata di almeno 15 anni aumentano del 37%. Risultati simili anche nell’ambito della ricerca condotta dalla Women’s Participation in Peace Negotiations and the Durability of Peace: rispetto a 882 accordi stipulati nell’ambito di 42 conflitti armati nel periodo fra il 1989 e il 2011, la durata degli accordi nonché il tasso di messa in opera effettiva è stato molto più importante rispetto a quegli accordi alla negoziazione dei quali non avevano partecipato rappresentanze femminili. La ricerca intitolata ‘Towards inclusive peace, Analysing gender-sensitive peace’ si è fondata sull’analisi di 98 trattati di pace stipulati in 55 Paesi fra il 2000 e il 2016, principalmente accordi di peace building, oppure di peace keeping: ebbene anche in questi casi il processo di pacificazione oppure di composizione dei conflitti nell’ambito della società si rivelò più efficace e superiore rispetto a quegli accordi a partecipazione esclusivamente maschile. Purtroppo, la partecipazione femminile nel quadro di questi processi di pacificazione rimane ancora molto bassa. Per esempio, nell’ambito dei 50 negoziati per la composizione di conflitti durante il 2023, la partecipazione femminile si aggirava mediamente attorno al 9,6% dei negoziatori, attorno al 13,7% dei mediatori e attorno al 26,6% di coloro che avevano sottoscritto accordi di cessate il fuoco (se poi si escludessero gli accordi stipulati in Colombia, quest’ultima percentuale scende addirittura all’1,5%).
Il Consiglio federale, alla ricerca ormai disperata di qualche iniziativa che possa ancora giustificare le sue posizioni di asserita neutralità, dovrebbe lanciare un processo internazionale di messa in opera della Risoluzione 1325 denominata “Femmes, Paix et Sureté” adottata nell’anno 2000 da parte delle Nazioni Unite. Scopo di queste iniziative svizzere: aumentare la partecipazione femminile, visto che le vittime preferite delle aggressioni militari sono le donne. Anche questa constatazione dovrebbe condurre a moltiplicare e ad aumentare la partecipazione delle rappresentanti femminili come protagoniste dei processi di pace. I fallimenti recenti più dolorosi in Libia, Yemen, Myanmar sono dovuti anche al fatto che le delegazioni dei partecipanti al conflitto avevano escluso ogni contributo femminile. Anche nel quadro delle forze militari impiegate nelle missioni di peace keeping, la partecipazione delle donne rimane purtroppo minima. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), nel 2024 è rimasta ancora molto bassa la partecipazione femminile nella leadership di tutte le operazioni delle forze armate e di polizia Onu e così anche nelle operazioni sul terreno dell’Ocse.
Nel quadro dei conflitti si continua purtroppo ad assistere all’utilizzazione sistematica di ogni forma di violenza sulle donne, culminante nelle violenze sessuali. Di conseguenza, dal momento che le forze militari di peace keeping continuano a essere costituite soltanto da uomini, la popolazione civile – ma specialmente le donne e i bambini – avrà sempre paura a interagire con questi militari. Basterebbe ascoltare Mira Koroma, funzionario di Polizia Onu che ha partecipato alle missioni di pace ad Haiti, nella Repubblica democratica del Congo e nella Repubblica Centroafricana, oppure Lola Ibrahim, presidente di Wave Foundation in Nigeria.
Proponiamo che le Commissioni parlamentari per la politica estera e anche gli ambasciatori che parteciperanno alla Conferenza annuale ascoltino e mettano in opera queste parole di Amina Mohammed, vice-segretario generale Onu, proferite il 24 ottobre 2024 al Consiglio di sicurezza: “Non ci facciamo illusioni riguardo alle sfide imposte dal panorama geopolitico attuale e sulla difficoltà di ottenere risultati diplomatici. Fintanto che sussisteranno le ineguaglianze di potere fra i sessi, le strutture sociali patriarcali e i pregiudizi sistematici, la violenza e la discriminazione potranno continuare a paralizzare la metà della nostra società e la pace resterà irraggiungibile”.
Questo articolo è stato pubblicato in francese sulla ‘Tribune de Genève’