L’articolo di Pietro Martinelli sulle “vittime sacrificali” palestinesi ci ha ricordato una verità scomoda: Gaza non è solo il teatro di un conflitto territoriale, ma l’altare su cui si consuma quotidianamente un sacrificio umano che l’Occidente guarda senza vedere. Ma come è possibile questa cecità collettiva? Come può una società civile assistere impassibile alla distruzione sistematica di un popolo?
La risposta sta in un fenomeno agghiacciante che ha radici profonde nell’identità israeliana: l’anestesia morale programmata. Un recente studio neurocognitivo condotto dall’israeliano Jonathan Levy ha svelato il meccanismo: quando adolescenti israeliani osservano la sofferenza di palestinesi, la loro empatia si spegne in meno di un secondo. Il cervello classifica istantaneamente l’altro come “estraneo”, bloccando ogni impulso di compassione. Non è un riflesso innato, ma il prodotto di un imprinting culturale che inizia dall’infanzia.
Come documenta il regista Eyal Sivan nel film ‘Izkor: gli schiavi della memoria’, già dalle Elementari i bambini israeliani vengono immersi in un flusso continuo di cerimonie e rituali che consolidano un’identificazione totale tra destino individuale e nazionale. Un processo che trasforma ogni palestinese in un’ombra senza volto, ogni sua sofferenza in una minaccia strategica piuttosto che in un fatto umano.
Questo imprinting si fonda su un vincolo che va oltre la semplice appartenenza culturale. Come ha lucidamente osservato Bertell Ollman nella sua ‘Lettera di dimissioni dal popolo ebraico’, si tratta di un legame organico e totalizzante che trasforma ogni dissenso verso Israele in una questione di fedeltà etnica e morale. Un meccanismo rafforzato dalla strumentalizzazione della Shoah: come ha mostrato la storica israeliana Idith Zertal, il trauma dell’Olocausto è stato trasformato in uno scudo morale impenetrabile. Alimentando l’idea di essere eterne vittime sempre sull’orlo di un nuovo sterminio, si è costruita un’aura di intoccabilità che presenta ogni azione, anche la più brutale, come legittima difesa.
I risultati sono evidenti nei sondaggi: l’82% degli israeliani sostiene la deportazione forzata dell’intera popolazione di Gaza, mentre il 56% vorrebbe espellere anche i cittadini arabi di Israele. Quasi la metà approva persino l’idea che l’esercito debba comportarsi come gli antichi Israeliti alla presa di Gerico: uccidendo tutti gli abitanti. Cifre da suprematismo etnico che evocano i fantasmi più oscuri del Novecento.
Ma questa anestesia non riguarda solo Israele. Si estende a tutto l’Occidente, paralizzato da una miscela tossica di senso di colpa storico, calcoli geopolitici e paura di essere accusato di antisemitismo. Un ricatto morale che ha trasformato la memoria della Shoah da monito universale contro l’oppressione in strumento di legittimazione dell’oppressione stessa. A tal punto che molte comunità ebraiche della diaspora – specie in Europa – si sono ritrovate in alleanze paradossali con le destre un tempo antisemite, accomunate dall’ostilità verso il mondo arabo e la sinistra antisionista.
Così l’Occidente si adegua, chiude gli occhi, mentre ogni giorno nuove vittime sacrificali vengono offerte sull’altare di questa ideologia, tra distinguo diplomatici, doppi standard e memorie selettive.
Eppure, ci ammoniva Elie Wiesel nel suo discorso per il Nobel:
“Là dove uomini e donne sono perseguitati in ragione della loro razza, religione, condizione politica o sociale, quello è per noi, in quel preciso istante, il centro dell’universo”.
Oggi, quel centro si chiama Gaza.