Pensare che dalla turbolenta vicenda dei dazi usciremo più in là rafforzati non è velleitario quanto piuttosto realistico. Una grave crisi come questa ci dà la possibilità di rivedere nostre scelte e strategie, ma pure gli schematismi che soprattutto la politica federale utilizza. Il problema è dato dal fatto che i tempi decisionali della politica sono più lunghi di quelli che possono permettersi le aziende e nella situazione in cui siamo cascati sono soprattutto le Pmi, che notoriamente hanno risorse limitate ma costi notevoli, a soffrire. Ma cosa sta succedendo nelle aziende ticinesi, soprattutto quelle maggiormente indirizzate all’esportazione e alla produzione per gruppi svizzeri ed esteri che a loro volta esportano nel mondo? Come abbiamo comunicato ai nostri soci la scorsa settimana e per quanto già pubblicato a questo proposito da laRegione, gli scenari ipotizzabili sono almeno tre, suddivisi temporalmente. A breve termine non sembra emergere da parte delle imprese la volontà di prendere decisioni vincolanti dal punto di vista strategico. Una parte o buona parte della produzione per il periodo autunnale è già stata completata e dunque prenderà la strada degli Stati Uniti prima che i dazi del 39% possano essere effettivamente applicati.
Una prima fase di decisioni importanti al di là del brevissimo termine potrebbe invece essere presa già verso la fine del mese di settembre o in ottobre, qualora la situazione dei dazi non dovesse mutare. Qui entra in gioco la possibilità, per chi è in questa condizione, di spostare parte della produzione nei Paesi dell’Unione europea dove il dazio applicato attualmente è “solo” del 15%. Si tratterebbe in ogni caso di spostamenti provvisori in quanto la situazione viene giudicata ancora incerta dal punto di vista delle decisioni che prende il presidente Usa. Le delocalizzazioni sono costose e partono dalla premessa di avere nel nuovo luogo di produzione tutte le condizioni per restare competitivi.
Gli scenari di valutazione a medio-lungo termine sono invece quelli che saranno fatti in autunno per il 2026, ma anche in un’ottica prolungata, diciamo a 3-5 anni. In questo secondo caso, la domanda di fondo è: ci sono le condizioni per continuare a produrre in Ticino e in Svizzera? La situazione di una parte importante dell’economia ticinese è dunque seria. Solo con una diminuzione dei dazi applicati dagli Stati Uniti ai prodotti svizzeri sarà possibile evitare uno scenario di trasferimento definitivo di attività economiche all’estero. Lo strumento dell’orario di lavoro ridotto rappresenta infatti un tampone provvisorio di una ferita che continuerebbe a sanguinare. Lo Stato del cantone Ticino così come anche le imprese maggiormente rivolte al mercato interno devono ugualmente preoccuparsi. Una riduzione dell’attività produttiva infatti si ripercuoterebbe ad esempio sul consumo di energia e dunque sugli introiti incassati dal Cantone in questo ambito. La parziale dismissione di attività economiche avrebbe poi ricadute negative sul territorio in quanto a minori ordinativi di prodotti e servizi a livello locale.
Per riallacciarmi a quanto detto inizialmente, la vicenda dei dazi Usa ci impone una seria riflessione sulle nostre capacità e possibilità come svizzeri di essere efficaci a livello della diplomazia commerciale e politica in un contesto internazionale maggiormente frammentato e instabile. La Svizzera a mio parere non deve snaturarsi nelle sue caratteristiche di negoziazione e mediazione, ma un certo opportunismo diplomatico che abbiamo saputo coltivare per anni non basta più. Entra in linea di conto anche una riflessione sul ruolo in questi contesti di instabilità della Banca nazionale svizzera, pur se noi continuiamo a ribadire che il ruolo principale della nostra banca centrale resta quello di garantire la stabilità dei prezzi. Come scriveva il direttore di questo giornale Daniel Ritzer lo scorso 13 agosto, è opportuno valutare l’opportunità o meno di dare risposte politiche ed economiche da parte elvetica che escano magari dagli schemi collaudati del passato. La vicenda evocata da Ritzer dell’introduzione da parte della Bns nel 2011 di una soglia minima di cambio di 1,20 fra euro e franco, misura poi abbandonata a gennaio 2015, fu il risultato di una reazione della nostra banca centrale e della politica federale ai rischi effettivi di una spirale di recessione e deflazione, nonché di una possibile forte contrazione dell’export. Le cifre delle esportazioni svizzere seguite all’abbandono di questa soglia minima di cambio ci hanno indicato che in realtà l’export svizzero ha saputo crescere per una serie diversa di ragioni, fra cui la capacità innovativa crescente non solo delle multinazionali ma pure di tante Pmi. Ma il prezzo che hanno pagato e pagano tuttora le aziende è elevato, anche solo per il fatto che la loro capacità di investimento è messa costantemente a dura prova.
Non credo sarà sufficiente promettere agli Stati Uniti maggiori acquisti di armi o investimenti miliardari negli Usa da parte delle multinazionali e grandi imprese svizzere, per togliere di mezzo definitivamente l’instabilità che circonda le nostre relazioni commerciali. Trump vuole effettivamente vedere una riduzione del deficit commerciale degli Stati Uniti con la Svizzera sul lato dei prodotti importati. Certamente la Svizzera deve prepararsi adeguatamente anche allo scenario peggiore che si traduce nel mantenimento di dazi elevati che penalizzano la nostra economia d’esportazione la quale, ricordo, genera oltre il 50% del nostro Prodotto interno lordo. È possibile dunque che come 14 anni fa la Bns d’intesa con le istituzioni federali sia di fatto costretta a intervenire sui rapporti di cambio con il dollaro per cercare di tutelare una parte considerevole della nostra economia, pur non dimenticando che gli Stati Uniti non sono il nostro primo mercato d’esportazione. Un’ipotesi che, osiamo pensare, sia già oggetto di approfondimenti a Berna.