Per parte di padre, vengo da una famiglia ebrea. Anche se, a partire dalla generazione dei miei bisnonni, in famiglia sono tutti laici, si è comunque tramandato (in forme forti o labili: nel mio caso, essendo nata e cresciuta lontano, labilissime) un senso di appartenenza all’ebraismo come cultura, come “terra d’origine” – anche se non si è mai associato a una terra specifica (né tantomeno a uno Stato).
Questo è un aspetto della cultura ebraica che, da osservatrice più esterna che interna, ho sempre apprezzato: il fatto che crea dei legami simili a quelli che si percepiscono tra connazionali, ma senza una nazione: è un senso di appartenenza che si basa sulla comune non appartenenza. Per famiglie come quella di mio padre, che hanno conosciuto varie forme di diaspora e sono laiche già da qualche generazione, la fondazione dello Stato d’Israele non ha cambiato questa sensazione: Israele non rappresenta una vera terra d’origine, semmai un luogo simbolico. Così, per mio padre, suo fratello e i loro genitori ci sono sempre state due patrie: l’ebraismo e, nel contempo, il loro Paese, l’Argentina. Quando i miei famigliari, con la dittatura militare, l’hanno dovuta lasciare, questo doppio senso di appartenenza si è manifestato: nel nuovo Paese frequentavano in buona parte emigrati argentini o persone d’origine ebraica (gente della “collettività”, come si dice in Argentina per indicare i “compatrioti” ebrei, credenti e non). Ma bisogna dire che – almeno così sembra a me – i miei parenti nel profondo condividono una convinzione: il Paese dove nasci è aleatorio, l’ebraismo no.
In questa facoltà dell’ebraismo di far sentire parte della stessa “collettività” persone che vengono da tutti i continenti – e questo solo in virtù di una supposta origine comune che si perde nella notte dei tempi –, ho sempre visto qualcosa di valido e luminoso: qualcosa che, trapiantato fuori dall’ebraismo, potrebbe rappresentare un bel modello di convivenza tra esseri umani in generale.
Un altro aspetto che mi ha sempre colpita dell’ebraismo è il fatto che, non avendo avuto una terra, fino alla nascita di Israele il popolo ebraico non ha preso parte attiva (se non in modo molto marginale) alle grandi e violente lotte di potere che hanno segnato la storia delle nazioni: è riuscito a ritagliarsi uno spazio nel mondo restando fuori da queste dinamiche, o limitandosi a subirle.
Oggi per me è diventato evidente (e a ragione potrete dirmi che me ne rendo conto ben tardi) che, con la nascita dello Stato di Israele, questi aspetti si stanno perdendo: con la nazione è arrivato il nazionalismo e, insieme a questo, il colonialismo con le sue derive.
Quello che vediamo oggi in Israele contraddice nel modo più triste la storia stessa del popolo ebraico, e spinge anche chi, per decenni, ha voluto guardare a questo Stato con indulgenza a rileggerne la storia. Molti ebrei hanno cercato a lungo di non prendere coscienza di questa deriva dolorosa; nella mia famiglia paterna, ad esempio, si è a lungo voluto vedere Israele nella miglior luce possibile: anche a me è stata raccontata la storia eroica dei primi coloni che a fatica hanno trasformato una terra arida in una democrazia florida, e poi il mito dei kibbutz ecc. E a casa abbiamo foto di Gerusalemme che testimoniano del primo, rituale viaggio in Israele dei miei bisnonni, negli anni Settanta, dal quale erano tornati con un cappellino con la stella di Davide, un poster di Moshe Dayan e una kefiah. I miei bisnonni, che non ho conosciuto, avevano visto i pogrom, erano emigrati in America latina, avevano assistito da lì alla Shoah e poi all’arrivo in Argentina di rifugiati ebrei e pure di fuggiaschi nazisti; penso che si possano giustificare ebrei della loro generazione per non aver voluto vedere le ombre che Israele proiettava fin dall’inizio.
Oggi però non ci sono più giustificazioni per “non voler vedere”, tanto più che, anche se non lo vogliamo, vediamo: ci sono video, articoli, testimonianze, impressionanti foto satellitari che mostrano la distruzione di città intere, ci sono le migliaia di nomi dei bambini uccisi nella Striscia di Gaza (ne abbiamo sentiti alcuni durante la manifestazione di sabato). In questo quadro, accusare di antisemitismo chi dice che Israele sta commettendo un genocidio è una strumentalizzazione vergognosa e un’offesa a chi ha subito veri atti di antisemitismo. Proprio perché il popolo ebraico sa cosa significa non avere una terra, proprio perché sa cos’è un genocidio, proprio perché ancora sono vivi gli ultimi testimoni della Shoah e proprio perché la cultura ebraica si fonda sulla memoria, quel che sta accadendo ora in Palestina è ingiustificabile e intollerabile – e intollerabili sono i tentativi di derubricarlo a legittima “reazione” alle atrocità del 7 ottobre.
Dicevo prima che un aspetto della cultura ebraica che ho sempre apprezzato è la capacità di sentirsi “collettività” con gente diversissima da te, proveniente da tutto il mondo. È urgente per noi recuperare questa capacità e farcene guidare (e non solo per quanto riguarda la Palestina). Fortunatamente, oggi ci sono persone (di tutte le origini) che lo fanno: penso a chi manifesta (a pacifiche spadellate o in cortei silenziosi e solenni come quello di sabato), a chi firma petizioni, a chi si imbarca, a chi va in Palestina a fare “presenza protettiva”, a chi lavora in ospedali di fortuna rischiando la vita, a chi scrive articoli, prende posizione, si dà da fare per smuovere il nostro governo – un governo che sta sacrificando i più alti valori umani al peggior opportunismo –, a chi in ogni forma si impegna per difendere persone lontane, che probabilmente non conoscerà mai, ma a cui si sente, comunque, legato.