laR+ L’ospite

La Rsi sotto assedio

(Ti-Press)

Un’azienda come la Rsi non è giudicabile col metro della redditività e della capacità di stare sul mercato. Non è solo questione di soldi che entrano e che escono, o dei quasi mille posti di lavoro che l’azienda garantisce, molti dei quali altamente qualificati. Di mezzo c’è anche un patrimonio unico fatto di parole, immagini e suoni, un archivio audiovisivo che rappresenta il precipitato spirituale di una comunità, delle sue aspirazioni, della sua “anima”. Anche la Rsi, come la Rai, ha contribuito a unificare linguisticamente lo spazio svizzero-italiano (a lungo dialettofono, specie nelle valli) attraverso iniziative pedagogiche (radio e tele-scuola) e programmi culturali (radiodrammi, concerti, cicli di conferenze). Fin dagli esordi ha funzionato come incubatrice e promotrice di progetti di vario genere, in italiano e in dialetto, che altrimenti sarebbero rimasti confinati nel regno dei buoni propositi. Ha pure saputo creare un ponte tra l’Italia, la Svizzera italiana e la colonia degli immigrati italiani sparsi su tutto il territorio nazionale. Ecco dunque una prima fondamentale, missione: salvaguardare questi materiali depositati nella memoria collettiva, classificarli e valorizzarli. Compito che però non basta, perché un patrimonio simile va alimentato e incrementato ogni giorno con sempre nuove testimonianze e nuove idee.

Ma ora il vento è cambiato. Ora si sostiene che nell’era dei canali sociali onnipresenti una televisione vecchio stampo, generalista e ordinata gerarchicamente, abbia perso la sua ragion d’essere. Ognuno si serve dove gli pare, cerca ciò che ama guardare e ascoltare navigando lungo le rotte infinite della grande rete. La televisione troneggia ancora in salotto, ma è sintonizzata su reti private e sui canali esteri, con in prima fila quelli italiani. Per contro nella Svizzera tedesca è la ‘Mundart’ a trionfare, e non solo nei programmi delle sempre più numerose stazioni locali, per non dire municipali. Tutto si presenta frammentato, ombelicale, introflesso. Ogni emittente si ritaglia uno spazio a misura del proprio pubblico, senza curarsi di organizzare un perimetro comune in cui tutti possano incontrarsi e dialogare. E se tutto questo non basta si può sempre far capo in ogni momento al catalogo dei servizi delle Pay-TV, a Netflix per esempio, a Disney, a Sky, a Dazn, piattaforme sradicate dal territorio, di matrice americana. Il sociologo Aldo Bonomi le definisce “imprese-molla”, iniziative multimediali che sorvolano la terraferma senza mai darsi la pena di scendere e mettere radici. Ma è lì che finiscono gli abbonamenti che le famiglie stipulano e che pesano non poco sui bilanci domestici. Di fatto diventeremo una colonia controllata da centrali esterne, produttrici di un’offerta non certo disinteressata, con pesanti implicazioni finanziarie, commerciali (saccheggio del mercato pubblicitario, a spese dei giornali) e fiscali (attività esentasse). Chi avrà la possibilità di vigilare sul rispetto delle linee editoriali e sulla correttezza dell’informazione? Quale Corsi (Società cooperativa che rappresenta il pubblico della Rsi) avrà la possibilità di intervenire nelle alte sfere per tutelare gli interessi del cittadino-utente? A quale autorità superiore potrà rivolgersi? L’idea originaria che fu alla base della nascita della radiotelevisione, ossia la necessità di sganciarsi, anche politicamente, dalle influenze provenienti d’oltre frontiera (e oggi dai gruppi transnazionali attivi nell’industria culturale), rischia di frantumare quel poco che ancora tiene insieme le quattro regioni linguistiche della Svizzera.

Nel 1960 Giuseppe Lepori, politico democristiano del secondo dopoguerra, Consigliere federale dal 1954 al 1959, lamentava l’assenza, in Ticino, di un’autentica “opinione pubblica che, facendo perno sul patrimonio morale, si aderga [si elevi] ove occorra, a porre dei limiti alle intemperanze della politica”. Qualche anno dopo la televisione avrebbe visto la luce anche dalle nostre parti e possiamo dire che, assieme alla radio, alle istituzioni scolastiche, alle reti associative, ai partiti (sì, anche loro, come fucine di cultura politica), alla stampa quotidiana e settimanale, abbia contribuito a colmare quel vuoto. Certo le “intemperanze” sono rimaste, ma è una tara che fa parte dell’album di famiglia. Perché in buona parte la Rsi non fa che rispecchiare gli umori, le irritazioni, le reazioni stizzite per errori d’impostazione e nomine sbagliate che agitano una comunità comunque viva e attenta ai suoi destini. L’allarme politico (il “pericolo rosso”) è rientrato da un pezzo, tant’è vero che gli equilibri sono da decenni stabili sull’asse di centro-destra. Insomma, avanzare critiche rilevando omissioni e parzialità è legittimo, fa parte della nostra concezione della democrazia. Staccare l’ossigeno no, perché la Rsi è pur sempre figlia nostra, con tutti i pregi e i difetti che ciascun figlio eredita da chi lo ha generato.

(fine)