Nel 1963, un colpo di Stato militare guidato da Hafez Al-Assad e altri ufficiali rovesciò un governo democraticamente eletto in Siria. Invece di condannare l’atto, le delegazioni occidentali si precipitarono a Damasco per riconoscere il nuovo regime, prima che il popolo siriano stesso lo riconoscesse. Quarant’anni dopo, la scena si ripeté. Alla morte di Hafez, il figlio Bashar Al-Assad si autoproclamò presidente, modificando la Costituzione in una riunione parlamentare durata meno di quindici minuti. Nessuna elezione, nessun confronto democratico. Eppure, ancora una volta, le capitali occidentali si affrettarono a legittimare il nuovo leader, con sorrisi, strette di mano e congratulazioni ufficiali.
Oggi assistiamo a una nuova, inquietante pagina della stessa storia. Diverse delegazioni occidentali fanno visita a Damasco per incontrare Abu Muhammad Al-Julani e il suo governo estremista, nonostante lo stesso Al-Julani e il suo gruppo figurino nelle liste terroristiche di alcuni di questi Paesi. Ufficialmente, si tratta di missioni “umanitarie” a sostegno del popolo siriano. Ma nei fatti si tratta dell’ennesimo tentativo di fornire legittimità a un potere imposto, come già accaduto con i regimi Assad. I risultati, in oltre sessant’anni, sono sotto gli occhi di tutti: repressione, distruzione, esodi di massa.
Concluderò il mio intervento con una domanda: non è forse giunto il momento per i governi occidentali di lasciare che sia il popolo siriano a decidere prima il proprio destino, attraverso le urne?