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Silenzio nazionale

L’attaccamento alla propria terra, quel senso un po’ viscerale di appartenenza, noto anche come patriottismo, può manifestarsi in modi diversi. Chi lo sente ribollire durante l’inno nazionale prima di una finale di hockey o di curling, chi lo riscopre in una fondue, io lo percepisco, sottile e ostinato, quando cammino da solo tra le montagne del Nord del Ticino. Mi capita anche di riconoscermi, in chi ha avuto il coraggio di rappresentare il nostro Paese con chiarezza – senza perdersi in acrobazie diplomatiche – esprimendo solidarietà all’Ucraina di fronte all’aggressione russa. È stato uno di quei momenti in cui ho pensato: “Ecco, questa è la voce della Svizzera che vorrei”. Non posso dire altrettanto quando assisto al complice silenzio davanti a quanto accade nei territori palestinesi. Un silenzio così denso da poter essere tagliato con il coltello, o forse con la bilancia della neutralità, quella a senso unico. Il termine “genocidio” è oggi scivoloso come un sentiero ghiacciato, e preferisco evitarlo per non offrire appigli a critiche dal sapore familiare, quelle che si riscaldano e si ripropongono come certe minestre della domenica sera. Alla fine, per chi vive sotto le bombe, il nome tecnico dato alla loro tragedia ha ben poca importanza. Quanto alla nostra cara e vecchia neutralità, pare interpretata con la flessibilità di una gomma da masticare: estendibile a piacere, ma sempre pronta a non dar fastidio a nessuno – soprattutto ai più forti. E così, come già scriveva qualcuno nel lontano 1895, anche oggi capita che chi ci governa “di un popolo gagliardo le tradizioni offende e insulta la leggenda del suo Guglielmo Tell”. E poi certe leggende è meglio lasciarle tra le pagine dei libri, lontano dai comunicati stampa ufficiali.