laR+ IL COMMENTO

Le pratiche distorsive non muoiono, si trasformano

C’è una sorta di analogia nella semantica tra le vittime dell’ottimizzazione fiscale elvetica e gli attori nostrani colpiti dai dazi di Trump

In sintesi:
  • Cosa hanno lasciato in eredità le grandi transnazionali ai territori ospitanti?
  • Le soluzioni facili a problemi complessi spesso non portano a nulla di buono
Finiti i privilegi, volano le ‘rondini’
(Ti-Press)
9 aprile 2025
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Iniziativa scorretta, pessimo segnale, provvedimento arbitrario, una vera e propria mannaia trasversale: le corporazioni politiche ed economiche di numerosi Paesi non hanno risparmiato definizioni denigratorie, negli anni, per descrivere quella che ai loro occhi appariva come una pratica del tutto distorsiva, una forma di concorrenza sleale istituzionalizzata. Si riferivano all’abitudine elvetica (Ticino compreso) di attirare sul proprio territorio stabilimenti di aziende multinazionali grazie alla leva dell’ottimizzazione fiscale. I famigerati “regimi speciali” per cui i grandi gruppi, come la Luxury Goods qui da noi per esempio, decidevano di insediarsi con degli enormi capannoni che diventavano di fatto i loro “hub”; un posto da dove fare passare delle merci prodotte in mezzo mondo per una qualche rifinitura (l’etichetta, l’ultima piega, il sacchettino e via) che giustificasse il loro status di soggetto fiscale svizzero. Solo la pressione della comunità internazionale, che portò in primis a un nuovo paradigma contributivo per le società denominato ‘Beps’ (Base erosion profit shifting) – preambolo della successiva ‘Global minimum tax’ –, è riuscita dopo un arduo lavoro a costringere la Confederazione ad abolire tali privilegi.

È in questo contesto che si inserisce la parabola ticinese della ‘fashion valley’, ideata una trentina di anni fa dall’allora “visionaria” direttrice del Dfe Marina Masoni (oggi presidente dell’associazione di categoria ‘Ticinomoda’) e dal suo braccio destro Sergio Morisoli, oggi capogruppo Udc in Gran Consiglio. Una volta finiti i privilegi fiscali, infatti, le “rondini” transnazionali non ci hanno messo tanto a ripartire alla ricerca di nuove spiagge. Cosa hanno lasciato in eredità ai territori ospitanti? È innegabile che per un determinato periodo il loro gettito ha riempito le casse dell’erario cantonale e di alcuni Comuni. Allo stesso tempo però questa presenza distorsiva, che ha sfruttato delle condizioni quadro particolarmente favorevoli (fiscalità leggera, buona infrastruttura, abbondante manodopera frontaliera a basso costo), ha impedito l’elaborazione di un qualsivoglia ragionamento di politica industriale e di sviluppo inclusivo ed equilibrato per il Ticino. Ora qualcuno dice – forse cercando di sfruttare la legge di Lavoisier – che la fashion valley “non è morta, si sta trasformando”. La realtà invece ci restituisce delle grandi carcasse di cemento difficilmente riconvertibili in spazi produttivi, perdita di posti di lavoro e nessuna ricaduta positiva per il Cantone a lungo termine.

Che la semantica delle vittime dell’ottimizzazione fiscale elvetica (e ticinese) corrisponda paro paro con quella degli attori nostrani colpiti dai dazi decisi da Donald Trump fa davvero riflettere. Certamente non per giustificare l’abietta manipolazione delle tariffe doganali, attuata dal presidente americano per provare ad azzerare in un colpo solo il deficit commerciale degli Usa. La questione è un’altra, una sorta di analogia: le soluzioni facili a problemi complessi spesso non portano a nulla di buono; soprattutto quando cerchi di ottenere vantaggi a scapito degli altri (in maniera truffaldina), approfittando di una – presunta – posizione di forza che non tiene però conto delle reali esigenze, capacità e specificità del territorio che ti circonda.