Una pratica che favorisce l’incontro di modalità e saperi preziosi, per la crescita professionale, accademica e personale
La politica formativa svizzera promuove la mobilità e gli scambi come strumento per permettere a persone di ogni età, ma soprattutto alle giovani generazioni, di acquisire competenze interculturali, linguistiche, specialistiche e internazionali durante la formazione di base e continua. Fra le attività e iniziative proposte figurano i programmi destinati a dottorandi e dottorande che desiderano intraprendere un periodo di visiting. Come Giulia Paludo, dottoranda all’Università di Trento, attualmente in visiting presso il Dipartimento formazione e apprendimento/Alta scuola pedagogica (DFA/ASP). L’abbiamo incontrata per scambiare due chiacchiere e farci raccontare la sua esperienza di mobilità.
Supsi
Giulia Paludo, dottoranda di Trento
Giulia, ci racconti il tuo percorso fino a oggi?
Ho un background in psicologia e scienze cognitive. Dopo aver conseguito la laurea magistrale in Human-Computer Interaction (HCI), ho maturato esperienze sia in azienda che nella ricerca, occupandomi di UX (esperienza utente) e fattori umani, oltre a esperienze in clinica con disturbi dell’apprendimento. Alla fine, però, mi sono innamorata delle tecnologie educative, che mi hanno permesso di unire le mie due passioni, le scienze cognitive e la tecnologia. Attualmente, sono dottoranda del PhD in Learning Sciences and Digital Technologies presso le Università di Trento e Modena-Reggio-Emilia. Mi occupo di didattica dell’informatica e, nello specifico, il mio progetto di dottorato si concentra sui correlati cognitivi e sugli aspetti didattici del pensiero computazionale.
Perché hai scelto il DFA/ASP per il tuo periodo di visiting?
Durante il Master in Human-Computer Interaction, ho avuto come insegnante la Professoressa Angela Pasqualotto, attualmente corresponsabile del Centro competenze bisogni educativi, scuola e società del DFA/ASP. La apprezzo molto come ricercatrice e ammiro il suo lavoro e approccio e questa occasione rappresentava per me il momento giusto per dare il la ad una collaborazione. Ho sempre amato osservare le cose da prospettive diverse, lavorare alla mia ricerca con professionisti e professioniste differenti è un elemento fondamentale per arricchire il mio percorso formativo.
Cosa ti ha colpita particolarmente del nuovo ambiente accademico?
Presso l’Università di Trento, appartengo a un ambiente completamente diverso, in quanto la mia sede è l’Information Engineering and Computer Science (DISI), un dipartimento di ingegneria informatica e un laboratorio FabLab che ricorda molto un’officina tecnologica. Il DFA/ASP è totalmente l’opposto. L’approccio alla ricerca didattica più disteso che ho riscontrato qui, unito alla tranquillità degli ambienti, è stato per me molto stimolante per esplorare nuove prospettive e metodologie, e ha ampliato al contempo la mia visione sulla ricerca educativa e sui processi di apprendimento in contesti inclusivi.
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Tra colleghi con background differenti lo scambio è reciproco
In che modo quest’esperienza di visiting sta contribuendo allo sviluppo del tuo progetto?
Il progetto di cui mi occupo tratta del pensiero computazionale da un punto di vista cognitivo, pedagogico e didattico. Qui al DFA/ASP sto lavorando al Centro competenze bisogni educativi, scuola e società per approfondirne il legame con le funzioni esecutive, attraverso il design di uno studio che partirà con l’inizio del prossimo anno scolastico e che indaga la relazione tra pensiero computazionale, funzioni esecutive ed abilità di lettura. Durante il mio periodo di visiting vorrei procedere con la definizione e la preregistrazione di due studi e migliorare alcune delle mie competenze metodologiche. Inoltre, desidero approfondire la mia conoscenza sulle funzioni cognitive e sugli approcci di didattica inclusiva che vengono esplorati al DFA/ASP.
A tuo avviso, quali sono le competenze che un’esperienza di mobilità può sviluppare, o rafforzare?
Lavorare sul proprio progetto con le stesse persone per lunghi periodi porta a essere molto immersi nella materia e ad arrivare a dare per scontati alcuni aspetti che, invece, avrebbero bisogno di essere discussi in modo più approfondito rispetto a quanto avviene, magari superficialmente, in una conferenza. Allo stesso tempo, anche osservare e “steal like an artist” gli aspetti interessanti delle pratiche di ricerca degli altri ha un valore enorme nella crescita professionale, accademica e personale, oltre che per le possibilità di networking, non solo durante il visiting ma anche per collaborazioni sul lungo termine.
La mobilità può secondo te facilitare l’entrata nel mondo del lavoro?
Senza indorare troppo la pillola, soprattutto in Italia, per questioni di iperqualifica o anche di skills mismatch, la carriera accademica non sempre è un vantaggio per poi introdursi in quella lavorativa, in particolare nell’ambito educativo. Indipendentemente da questo, credo però che esperienze di questo tipo siano arricchenti a prescindere e promuovano la contaminazione di pratiche e know-how preziosi in qualsiasi ambito, non solo professionale ma anche per la crescita personale.
Che cosa ti porterai a casa da quest’esperienza?
Porto a casa soprattutto una maggiore consapevolezza su come lo stesso oggetto di studio – nel mio caso, il pensiero computazionale – possa essere indagato e interpretato con approcci differenti, sia sul piano metodologico che teorico. Ho avuto l’opportunità di osservare da vicino modalità di lavoro più distese, ma al tempo stesso estremamente produttive, che mi hanno fatto riflettere su come ritmi e contesti influenzino la qualità del lavoro di ricerca. In generale, sento di aver arricchito il mio bagaglio sia in termini di contenuti sia di visione del mio ruolo come ricercatrice.
Cosa ti sentiresti di consigliare a uno studente/una studentessa che sta valutando di partecipare a un programma di mobilità?
Consiglio assolutamente di cogliere l’occasione, anche se può sembrare impegnativo o spaventare all’inizio, soprattutto per la burocrazia che comporta. Uscire dal proprio contesto abituale non solo permette di espandere la propria rete, ma apre a nuove prospettive, modi di lavorare e approcci alla ricerca che difficilmente si possono esplorare restando fermi nello stesso posto. La mobilità internazionale stimola adattabilità, flessibilità e capacità relazionali, tutte competenze fondamentali sia in ambito accademico che lavorativo. In più, il supporto da parte del personale dedicato alla mobilità è stato per me un elemento rassicurante: sono stati sempre disponibili, attenti e pronti a rispondere a ogni esigenza. È un’esperienza che arricchisce profondamente, sul piano umano e professionale, e che consiglierei a chiunque voglia mettersi in gioco.
In collaborazione con il Dipartimento formazione e apprendimento/Alta scuola pedagogica