laR+ Quando cade un quadro

Invictus

Le lacrime tracimavano sotto la faccia come fiumi arrabbiati, grasse anguille cercavano una strada

(depositphotos)

Giacomo aveva lo sguardo sornione, i capelli biondicci tinti e tagliati male, un sacco di ferraglia varia attaccata alla faccia. Un volto magro, glabro, scavato, le occhiaie profonde, e qualcosa di dormiente nel profondo delle iridi. Lo avevo conosciuto in un istituto dove lavoravo ed era uno dei tanti, storie smarrite, fragili come gemme di sambuco, pronte a dare frutto ma così vulnerabili. L’unica relazione seria era quella con le sostanze. Dimenticate il Ticino che conoscete dei boccalini e dei mandolini, della piccola imprenditoria, dei patriziati. In quest’altra terra sovrapposta c’è la tana dei goblin, quella della schiuma del mare. Un posto in cui non si chiede pietà perché non ce la si aspetta, un universo parallelo dei dimenticati, degli infimi, dove i ragazzi piuttosto che accettare una mano tesa la mordono.

Eppure Giacomo aveva qualcosa di luminoso. Amava dire: “La cultura mi ha salvato”. Suonava il piano, dissertava di poeti medievali, discuteva di filosofia e Rinascimento. Ascoltarlo, assorbirlo, conoscerlo era una sfida difficile. Eppure qualcosa era nato, un legame, una specie di società dei poeti estinti, dove la mente giocava e si contorceva come un geco che insegue una mosca sul muro.

Con Giacomo ogni momento era speciale e i regali erano poesie di Henley o dissertazioni su Petrarca. Esistono ragazzi così, timidi e poderosi, ammalati di vita e destinati al macero perché non siamo capaci di vivere nelle nostre ossa le loro sofferenza. Un giorno lessi un messaggio sul telefonino, scherzando mi apostrofò: “Oh capitano, mio capitano”.
E io vidi un lampo luminoso che non meritavo, perché non ero io il capitano della sua anima, ma lo era lui, io ero solo un timido spettatore, una schiva zanzara che viveva del sangue giovane che succhiava.

Trovarono Giacomo morto in casa sua a 22 anni, e pensare che aveva messo su un’enoteca. Il cuore aveva ceduto. Cercava l’oblio nella Ketamina, la “Keta”, come la chiamano, un anestetico pesante, così non devi pensare, così il cervello si ferma e non devi processare ogni giorno le stesse repliche della mente, roba che è come le unghie che artigliano la lavagna.

Andai alla camera ardente, dove era esposto il suo corpo. Un locale angusto di uno dei nostri piccoli paesi del Sud a mezza montagna, i cipressi a fare da guardiani, lo scricchiolio della ghiaia sotto le scarpe. Sembrava più piccolo del solito ma questo è tipico dei cadaveri. Era un pomeriggio di autunno inoltrato e non c’era nessuno. Lo fissai per qualche minuto poi presi il libretto di Henley con la poesia Invictus e glielo posai sul petto, dove già qualcuno aveva lasciato altri ricordi.

Le lacrime tracimavano sotto la faccia come fiumi arrabbiati, grasse anguille cercavano una strada. “Brutto stronzo”, mormorai mentre la nebbia compassionevole mi offuscava la vista.
Fu allora che gli regalai la poesia:

“Oltre questo luogo di collera e lacrime
Incombe soltanto l’orrore delle ombre.
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura...”