Giornata speciale per il portoghese, incarnazione dell’autostima che, a dispetto dell’età, pare proprio non abbia alcuna intenzione di ritirarsi
Quaranta è solo un numero, direbbe lui oggi, 5 febbraio 2025, che 40 anni li compie. Ma i numeri in un certo senso sono la carriera di Cristiano Ronaldo: 5 Champions League, 5 Palloni d’Oro, 1 Europeo, 3 Premier League, 2 Liga, 2 Scudetti, 4 Coppe del mondo per club, 2 Supercoppe europee, 14 tra Coppe e Supercoppe nazionali; e poi soprattutto: 5 gol con lo Sporting, 145 con il Manchester United, 450 con il Real Madrid, 101 con la Juventus, 81 con l’Al Nassr e 135 con il Portogallo.
Un totale di 941 (altre fonti sostengono sia arrivato a 923, dipende se vogliamo contare alcuni gol segnati con le Nazionali giovanili), che rappresenta il numero più importante di tutti, quello che per lui più conta e che lo ha spinto a entrare in una categoria ristretta di atleti che negli anta continuano, più o meno, a farsi valere nello sport di appartenenza, invece di ritirarsi e godersi una meritata seconda vita da re («quando mi ritirerò vivrò come un re», parole sue di qualche anno fa a cui è facile credere).
Continua Cristiano perché il suo obiettivo è un altro numero ancora, un numero tondo e spaventoso: il Mille (e non più Mille?). Lo ha specificato più volte: prima di lasciare il calcio la sua volontà è di arrivare a segnare 1’000 gol in carriera. Un traguardo spaventoso (per noi) ma non così irraggiungibile (per lui), visto che gliene mancano appena 59, tanti per chiunque ma certo non per Cristiano, che potrebbe arrivarci in poco meno di due anni.
Lunedì contro l’Al Wasl nella Afc Champions League Élite ne ha segnati altri due, in una partita ininfluente (l’Al Nassr è già qualificato al turno successivo) ma che figuratevi se non giocava. Prima su calcio di rigore, poi colpendo di testa in bello stile su un cross dalla sinistra: classic Cristiano Ronaldo. Certo, sono gol in un contesto periferico e da noi mal visto come quello dell’Arabia Saudita, ma nessuno più di lui è riuscito a far valere il senso più astratto di un gol: un gol è un gol, non importa dove e contro chi è segnato, l’importante è che sia segnato da lui e magari poi festeggiato con il suo celeberrimo Siuuuummm!
La sua è una sfida senza avversari, sempre a sentire lui. Quando è arrivato a 900 gol ha sentenziato: «Sono il miglior marcatore della storia del calcio: a differenza degli altri, per ogni mio gol esiste un video e quindi ho la possibilità di dimostrarlo». Il riferimento neanche tanto velato è ai – questi sì irraggiungibili – 1’281 gol di Pelé, numero che gli riconosce la Fifa, ma che conta di una lunga serie di partite tra l’amichevole e l’amatoriale di cui non sappiamo molto, se non che Pelé ci segnava dentro.
Per Cristiano l’equazione matematica è molto semplice: se ho segnato più di tutti, sono il più grande di tutti. Recentemente ha raccontato come suo figlio Mateo, 7 anni, stia in fissa con Kylian Mbappé e spesso gli faccia notare come «Mbappé è più forte di te papà». La sua risposta allora è sempre la stessa: «No, papà è più forte di lui, ha più gol di lui». Non più trofei, o Palloni d’Oro o più vittorie o una maggiore completezza. No: più gol, l’unico vero metro di paragone possibile tra calciatori.
Per questo l’ambizione di Cristiano è di arrivare a quota 1’000, perché poi con quel numero incastonato nella pietra, e documentato come un film – per ora su YouTube trovate il video con i “primi” 900 gol di Ronaldo: dura 1 ora, 47 minuti e due secondi, 9 minuti in meno di Fuga per la vittoria, se vogliamo rimanere in tema Pelé –, potrà sedersi al tavolo con i più grandi, e provare a rivendicare l’ambito ruolo di Goat, il più grande di sempre, che nel calcio è particolarmente dibattuto («Sono il giocatore più completo di sempre. Dire che Cristiano non è completo è una bugia. Potresti preferire Pelé, Messi, Maradona, lo capisco e lo rispetto», ha detto giusto l’altroieri, in una lunga intervista-confessione in terza persona al suo amico Edu Aguirre).
Proprio per questo Cristiano è polarizzante: o accetti la sua visione del mondo e lo ami o la respingi e lo odi. La sua carriera non ha niente dell’epica di Maradona, l’uomo arrivato dal fango per riscattare i popoli col suo genio maledetto, o della capacità di anticipare i tempi di Pelé, o della geometrica rivoluzione di Cruijff. Non si avvicina neanche al suo contemporaneo Messi, che magari neanche lui avrà il carisma dei campioni del passato, ma ha creato calcio geniale su scala industriale, innovato questo sport pur rimanendo ancorato alla bellezza classica che tanto amiamo. Cristiano è la forza, l’allenamento, la volontà, i gol segnati. Non ci sono vie di mezzo. I suoi risultati sono appunto i numeri, le vittorie, i muscoli che gli spuntano da tutte le parti. Sono visibili, non richiedono di essere filtrati dalla sensibilità di chi guarda.
È per questo che oggi, nella società dell’immagine, Cristiano funziona così bene fuori dal campo come prodotto (o come amano dire quelli giusti come “multinazionale di se stesso”). Sempre parlando di numeri, Cristiano è il primo essere umano a superare il miliardo di follower sui social: 639 milioni su Instagram, 170 milioni su Facebook, 113 milioni su X, 9,4 milioni su Kuaishou, 7,5 milioni su Weibo, 60 milioni su YouTube, numeri comunque in continuo aggiornamento. Rimanendo sempre ai numeri, solo Michael Jordan ha guadagnato più di lui come sportivo, una cifra stimata di 1,92 miliardi di dollari che gli arriva più dagli sponsor che dagli stipendi come calciatore, comunque altissimi.
Per quanto sgradevole possa essere visto da fuori, cioè dal nostro punto di vista di osservatori, che nel calcio e nei calciatori vorremmo qualcosa di più della mera esecuzione, questa lezione di Cristiano non può essere ignorata. Da questo punto di vista il portoghese è più vicino a noi di quanto crediamo, è più un’ispirazione da seguire che non un’icona da venerare. Messi è inimitabile, Cristiano può essere imitato, se non nel fine, almeno nei mezzi. Se ascoltate i calciatori di oggi, molti di loro si riconoscono nel portoghese, nel suo sforzo tangibile per arrivare in cima attraverso il lavoro e la dedizione. E lo rispettano. È un po’ la stessa cosa che è successa con Kobe Bryant, quella che lui chiamava Mamba Mentality, e che tanto ha avuto successo tra chi è venuto dopo. La mentalità e l’ambizione vengono sempre prima del puro talento.
In Cristiano però questa mentalità si è sempre manifestata in modi poco zen diciamo, attraverso un egoismo e una rabbia che possono infastidire in uno sport così collettivo. Cristiano protesta con gli arbitri quando le cose non vanno come vuole lui, se la prende coi compagni che non gliela passano, anche se poi è lui il primo a non passarla, rosica quando gli fanno cori a favore di Messi, cerca di segnare in ogni modo, anche rendendosi ridicolo. Ammetto che, quando questa ossessività lo portava a riscrivere record su record con il Real Madrid e la Nazionale, io non la capivo. Vedevo in Cristiano una deriva simbolica del capitalismo, dove tutto è così spinto verso l’efficienza e la produttività da aver perso di vista il fine ultimo del calcio, che non è tanto – o solo – vincere, ma anche quello di intrattenere attraverso lo spettacolo, emozionare, promuovere identità collettive.
Oggi però sono più indulgente con lui, mi trovo a essere contento per i suoi gol nel deserto, a comprendere – capire è impossibile – come possa tenerci ancora così tanto da arrivare a sminuirsi così, accettare di continuare in un contesto che messo a confronto al suo passato non può che sembrargli deprimente. Cristiano ha veramente vissuto al centro del calcio degli ultimi 20 anni.
Quando era al Manchester United ha spinto la Premier League a diventare il campionato dominante a livello economico e mediatico, al Real Madrid ha vissuto gli anni incredibili della rivalità con il Barcellona e poi l’epoca d’oro del club, quando la Champions League era una formalità. Con la Nazionale ha giocato i tornei continentali e intercontinentali più importanti e seguiti, sempre da prima stella, su tutti i cartelloni, in tutte le pubblicità. Anche con la Juventus, per quanto possiamo considerarla la sua esperienza meno riuscita, è stato il simbolo del tentativo del calcio italiano di riprendersi il centro della scena mondiale. Eppure eccolo, a 40 anni, a piangere per aver perso un’oscura Coppa del Re dell’Arabia Saudita, a rammaricarsi per un gol sbagliato, a sbraitare per un errore dei compagni. Ancora voglioso di andare in Nazionale, solo per poter segnare qualche altro gol; capace di allenarsi tutti i giorni con la stessa intensità, di passare le ore libere nelle vasche di ghiaccio, di mangiare bene, di bere bene, dormire il giusto. Il suo stile di vita è leggendario.
Gli aneddoti di compagni e allenatori a riguardo sono un tesoro. Ne cito due ma potevano essere centinaia: «Se l’allenamento era fissato alle 9 e volevo arrivare in anticipo di un’ora, lui era già al campo», ha raccontato Tevez, «se arrivavo alle 7.30, era lì. Allora mi dissi “Ma è possibile arrivare prima di lui?” e un giorno sono arrivato alle 6. Lo trovai sul posto, mezzo addormentato. Ma c’era». Oppure, questa volta Carlo Ancelotti: «Quando tornavamo dalle trasferte di Champions, Cristiano Ronaldo andava a Valdebebas (il centro di allenamento del Real, ndr) e faceva bagni di ghiaccio alle tre di mattina, anche se Irina lo stava aspettando a casa». Sono sicuro che ancora adesso faccia le stesse identiche cose, senza mai sgarrare.
Per tutti questi anni l’impegno di Cristiano è stato considerato prima di tutto una forma d’amore verso se stesso, ma ora che lo ha portato avanti così a lungo – fino ad arrivare a 40 anni, ogni tanto sento di doverlo ripetere –, viene da chiedersi se invece non sia solo il suo modo di amare visceralmente questo sport. Un modo magari infantile e possessivo, ma in qualche maniera puro. Magari potete pensare che Cristiano non sia il più forte di sempre, neanche il più forte della sua epoca (io ad esempio non penso lo sia stato), ma è difficile dire che non sia stato quello a tenerci di più. Ecco, almeno oggi, che è il suo giorno, dobbiamo riconoscergli questo. E il fatto che a 40 anni abbia ancora questa ossessione, questa voglia di segnare ancora un gol e un altro ancora, anche solo per contarli quando torna a casa, dovremmo guardarla con rispetto e pensare a quanto ci mancherà quando smetterà, se mai davvero dovesse accadere.