Quel sabato mattina sentii un casino, un vociare, tanti passi, battiti di mani. Il rumore arrivò da lontano come lo scroscio di un acquazzone…

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Errare, o andare per via senza meta, è una rubrica di racconti. È un gioco con il vuoto, in cui tacciono le certezze, i dati, le cronache, ma parlano i silenzi, gli sbagli, il dietro dell’angolo che non svoltiamo. L’invisibile cessa di essere mostruoso oppure, come unica alternativa, ridicolo. Errare poi è un verbo che suona, facciamo finta che sia solo un fruscio, al massimo un sentore. Errando catturo delle immagini. Ogni cosa mi risulta tragicomica e questo è il carattere di Errare, forse l’unica patria che gli è concessa.
Da qualche giorno abitavo in un nuovo monolocale, vicino al centro storico della mia città nativa. Quel sabato mattina sentii un casino, un vociare, tanti passi, battiti di mani. Il rumore arrivò da lontano come lo scroscio di un acquazzone. Scesi in strada e mi ritrovai nel bel mezzo di una bolgia. Stavo bene e mi sentivo curioso, ogni tanto mi alzavo sulle punte dei piedi per scrutare la distesa di persone da un’angolatura più elevata. Nella bolgia c’era gente che gridava, in molti litigavano avendo pareri divergenti.
Ricordo tutto perfettamente. C’erano quelli che erano a favore del rumore, contro quelli che invece erano a favore del silenzio. Era veramente difficile trovare una via di mezzo, perché quelli che erano a favore del silenzio non avrebbero tollerato nemmeno un bisbiglio e quelli che erano a favore del rumore volevano esprimersi solo urlando. Erano cazzi amari per tutti.
Camminavo a passi lenti ed osservavo i vari striscioni, ascoltavo i diversi slogan. Erano tutti agguerriti. Eppure a me sembrava che tutto fosse una specie di messinscena, aveva un non so che di ridicolo, satirico.
“Evitiamo di parlare laddove non è strettamente indispensabile!”.
“Se ci mettete un bavaglio vi sfasciamo i vetri della casa!”.
“Niente musica dopo le dieci di sera!”.
“Ronde disturbatrici ad ogni ora della notte!”.
Francamente sentivo di volermi schierare dalla parte del rumore, la parte meno intollerante dunque. Ma ancora non ne ero certo. Avrei senz’altro avuto bisogno di quiete, prima o poi, no? Arrivò uno e mi strattonò parlandomi:
- E tu da che parte stai? Sei un forestiero?
- No sono di qui, è che sono rimasto via molto tempo, ma calmati amico, ti verrà una sincope.
- Chi se ne frega! Da che parte stai?
- Dalla tua!
- Allora taci! E vai a dormire presto la sera! E non bere! E non stare in giro di notte!
Oh merda, era uno dei silenziosi!
- Va bene amico!
Poi venne un altro e mi urlò in faccia strattonandomi per la giacca:
- Da che parte stai?!
- Dalla tua amico!
- E allora grida tutta la notte! Balla per strada! Suona il tuo strumento pubblicamente!
- Va bene amico!
© Matteo BeltramiMi divincolai. Ripresi a camminare lentamente, mi veniva come da ridere, in ogni caso era interessante osservare il tumulto governare. Una cosa veramente poco tipica nella mia città. Poi mi accadde una cosa più che strana, inizialmente temetti che fosse un’allucinazione, ma dovetti ricredermi. Fra la folla scorsi Gabriel, un ragazzo che avevo conosciuto quando ero in Sudamerica.
Appena lo vidi mi apparve fuori contesto. Gabriel, nella mia città, poteva risultare il classico ragazzetto spavaldo e che sta antipatico a molti solo perché ha una certa spocchia e la pelle olivastra. In realtà nella mia vita avevo conosciuto ben poche persone sincere quanto lo era quel Gabriel. In quanto alla spocchia: aveva solo diciannove anni e la testa piena di cazzate, però aveva una buona energia. Se ne stava lì contro ad un muro e osservava la folla, ma non è che la guardava veramente, a lui non importava affatto quella folla o quello che avessero da dire, tutti quanti. Lui voleva solo attraversare la piazza e attendeva l’attimo giusto, cercava un varco. Qualche istante e trovò uno spazio in cui infilarsi, da lì iniziò a scivolare fra quelle costose giacche invernali, io determinai un punto indicativo che mi permettesse di incrociare il suo farsi avanti fra la gente. Lo beccai praticamente nel centro di quella piazza fredda e gremita. Toccai la sua spalla e lui si voltò con un mezzo ghigno a squarciargli il volto, pronto a qualsiasi incontro.
- Ciao! Visto quanta gente?, mi disse subito come se incontrarsi lì fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
- Ma che diavolo ci fai qua?, dissi io sorridendo, ma sconcertato.
- Mi hai parlato tanto della tua città quando eravamo amici, dunque sono venuto a cercare fortuna.
- Ma qui non c’è fortuna, non c’è nulla per te!
- Uomo di poca fede, qualcosa troverò! E poi ho trovato te! Il che non è un caso.
- Ma i documenti ce li hai in regola? Come sei arrivato qui?
- Erano mesi che risparmiavo, sono venuto in nave e poi in treno e poi con un amico boliviano ho passato la frontiera, ai documenti non ho ancora pensato, qui non c’è nessuno bravo a falsificarli?
- Ma cosa dici? Qua non siamo nel tuo paese, qua le cose sono diverse.
- Vedremo, mi hanno parlato di Milano, ma anche nella bella Svizzera non è impossibile. Comunque, tu hai una casa?
- Sì, andiamoci.
Ci incamminammo verso casa mia e in sette minuti arrivammo. Lo dissi anche a Gabriel:
- Visto? Da casa mia al centro sono solo sette minuti a piedi.
- Sette calci in culo ti dovrei dare, per il solo fatto che cronometri i minuti.
Rimasi un po’ perplesso. Già nell’ascensore per arrivare al terzo piano intuii che nello zaino di Gabriel c’era qualcosa di vivo, qualcosa che si stava muovendo. Entrammo in casa.
- Visto che gran casino in strada?, chiesi al clandestino.
- Sì, ho notato qualcosa, ma cosa stavano facendo?
- Pensa Gabriel, litigano perché alcuni vorrebbero più silenzio e altri più rumore.
- Per questo litigano?
- Sì.
- Il silenzio e il rumore possono coesistere. Dipende dalle persone, ci vuole tolleranza.
- Ma in Bolivia però avete lo stesso problema, suvvia. Manifestate di continuo.
- Non è vero. Lassù se uno vuole fare musica per strada la fa, e se a qualcun altro dà fastidio se ne parla. Quello che fa musica si sposta, va da un’altra parte, oppure se ne va quello che vuole il silenzio, oppure si sfasciano a pugni. Comunque guarda, abbiamo ben altri problemi, ed è per quelli che manifestiamo.
- E cosa hai nello zaino?, non resistetti, glielo dovevo domandare.
- Ecco! Questa è una cosa veramente importante. Ho portato una scimmia. L’ho rubata sulla barca durante la traversata dell’oceano.
- Oh Cristo. Ma cosa cazzo stai dicendo?
- Sì, sì! Ho una scimmia, guarda, mi ha anche morso.
- Ma sei vaccinato contro la rabbia?
- Contro cosa?
- Oh, Gesù. Sei un clandestino che ha fatto entrare clandestinamente un animale esotico rubato. Ti rendi conto del fatto che ti fanno un culo così quando ti beccano?
- Aspetta… cosa ho fatto? E a chi dovrebbe interessare?
- Niente, Gabriel, fammi vedere questa scimmia.
- Guarda qua, si chiama Ernesta.
- Mh. Ernesta eh?
Gabriel aprì lo zaino, io ci guardai dentro ed immediatamente mi innamorai dello sguardo che ci vidi. Era una stronza di scimmiettina nana di non so quale specie. Era impaurita da morire. Ebbi l’istinto di allungare una mano, ma poi mi ricordai del morso ricevuto da Gabriel. Guardavo dritto negli occhi quella meravigliosa creatura e mi sentivo bene. Due castagne bruciate in mezzo a un ciuffo di seta nera. Pensai che erano quelle le cose importanti, anche per me. I clandestini e le scimmie nei sacchi, rubate su navi cargo sudamericane. Chissà dov’era nata quella creatura spaventata? Avrei potuto fare molto per lei e per Gabriel. Giù in strada non avrei proprio saputo da che parte schierarmi. Ma io, Gabriel ed Ernesta eravamo un trio, ormai. Mi sentivo appartenere più a loro che non alle fazioni che stavano manifestando e che erano composte da persone che parlavano il mio stesso dialetto, al fianco delle quali ero cresciuto. Cosa ci potevo fare con tutto quello che avevo ricevuto quel giorno? Senza dubbio tantissimo.
- Gabriel, per prima cosa andiamo da un mio amico dottore, dovrebbe avere dei vaccini a casa sua, a volte il morso degli animali selvatici può essere pericoloso. Poi torniamo qua, tu ti riposi e io vado a comprare un po’ di frutta per Ernesta.
- Va bene, però non possiamo fare il contrario? Prima mi riposo e tu vai a comprare la frutta.
Mi convinse. Uscii di casa e tornai in strada, a passo spedito mi diressi verso il supermercato più vicino, dovevo comprare frutta, acqua e latte, e magari iniziare ad informarmi per trovare qualcuno che mi fornisse un documento falso. Chissà, forse sarei dovuto andare in Italia, dovevo fare benzina. Mi sarebbe costato caro, ma nella vita ormai certe spese sono da prevedere, mi dissi, ridendo in seguito di quel mio pensiero. Ero quasi arrivato al negozio, il mio passo era rallentato dalla folla litigiosa. Un altro dimostrante mi fermò afferrandomi per la manica della mia giacca vecchia e sfatta.
- Ehi tu! Vuoi firmare una petizione? Ma lo sai almeno cosa sta capitando in città?
Mi voltai di scatto divincolandomi un’altra volta. Gli piantai gli occhi negli occhi. Lui trasalì.
- Senti, fai la cosa giusta, vattene da me ok? Ci sono cose più importanti nel mondo.
Poi arrivai al negozio e comprai quello di cui avevo bisogno. Aggiunsi anche qualche birra. Volevo soltanto tornare a casa, da Gabriel ed Ernesta.
© Matteo Beltrami‘Ceci n’est pas un singe’